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Nicoletti, banchiere della banda della Magliana: “Due Papi mi hanno voluto bene”

Creato il 09 maggio 2010 da Antonellabeccaria

Domani di Maurizio Chierici

Rispetto ad altri personaggi, divenuti vere e proprie icone come se fossero dei califfi dello star system criminale, il suo per anni è stato un nome meno conosciuto al grande pubblico dei media. Nemmeno dopo essere diventato il Secco nel “Romanzo criminale” di Giancarlo De Cataldo, Enrico Nicoletti, nato nel 1936 a Monte San Giovanni Campano, in provincia di Frosinone, aveva abbandonato del tutto il ruolo defilato che si era scelto, per quanto tutt’altro che defilato fosse il ruolo che gli riconoscevano anni di indagini, processi e richieste di condanna (alcune arrivate e passate anche in giudicato). L’uomo che oggi lotta attraverso i suoi avvocati perché gli vengano restituiti gli oltre cento milioni di euro confiscatigli, colui che è passato agli annali della cronaca giudiziaria italiana come il cassiere della banda della Magliana, nelle ultime settimane ha accettato di rispondere alle domande dei giornalisti in due occasioni.

La prima ha coinciso con un colloquio con Gianluca di Feo e Gianni Perrelli, colloquio riportato dall’Espresso dell’8 aprile 2010, e la seconda invece un’intervista del 16 aprile che l’inviato Pino Scaccia ha realizzato per Tv7, la rubrica di approfondimento del Tg1. E sul blog del giornalista Rai, dove segnalava la messa in onda della “verità di Enrico Nicoletti” (si veda questo indirizzo: http://latorredibabele.blog.rai.it/2010/04/16/la-verita-di-enrico-nicoletti/), colpiscono un paio di commenti, entrambi firmati solo “Raffaella” e “Marco”, senza cognome o altro segno di identificazione. Se il primo esprime riprovazione contro la «misera gente senza cognizioni a giudicare», tutti e due calcano su un punto: la magnanimità con cui l’ex re dei palazzinari romani ha sempre trattato chi aveva bisogno di aiuto.
Ma chi è in effetti Enrico Nicoletti? Partendo dalla fine, se si guarda al passato recente, ai tempi dello scandalo dei “furbetti del quartierino” lo si metteva in relazione con il costruttore Danilo Coppola, in seguito condannato per bancarotta fraudolenta. E c’è chi – come il giornalista di Repubblica Carlo Bonini – lo descrive come comprimario di una nuova mala romana. Un’organizzazione che, svestiti i panni dei gangster della Magliana, sarebbe confluita del tutto nel mondo della finanza e della politica prosperando con i relativi proventi (e il sospetto è che in questi giri siano finiti anche i quattrini che avrebbero dovuto alimentare le stecche destinate alle famiglie degli ammazzati e dei carcerati, come prassi malavitosa avrebbe voluto). Ma da questo punto di vista le indagini potranno dire quanto c’è di fondato in questa ipotesi investigativa.

Sta di fatto che oggi il Secco prende la parola per sfatare quelle che ritiene leggende ormai sedimentate sul suo conto. Afferma così che della Magliana non ha mai toccato un soldo: non sapeva della sua esistenza e dunque non poteva esserne il cuore economico. E aggiunge che ben due papi (Wojtyla e Ratzinger), oltre a una serie di porporati, gli han voluto bene (e lui, da cattolico osservante, li ha ricambiati tutti). Tra questi però non ci sarebbe stato il cardinal Ugo Poletti, colui che autorizzò la sepoltura del boss della Magliana Enrico De Pedis, detto Renatino, nella basilica di Sant’Apollinare, tra prelati e un compositore barocco del diciassettesimo secolo. Men che meno Nicoletti avrebbe avuto rapporti con Renatino, il Dandy di De Cataldo, se si escludono i servizi che quest’ultimo gli rendeva in carcere, tra cui fargli il caffè o lavargli la biancheria. Servizi ricambiati quando il boss ebbe bisogno, come quella volta che gli chiese un prestito di grosso modo 200 milioni di lire per l’acquisto di un ristorante, prestito regolarmente restituito – afferma – per tramite notarile.

Ma sulla fedina penale dell’ormai anziano imprenditore, come si definisce, pendono alcune condanne. Tra queste una risalente al 1992 e confermata di recente a quattro anni di reclusione per estorsione, e un’altra, di tre anni e mezzo, per i rapporti intercorsi con la Magliana. Per il giudice Otello Lupacchini, inoltre, «Nicoletti funziona[va] come una banca, nel senso che svolge[va] un’attività di depositi e prestiti e attraverso una serie di operazioni di oculato reinvestimento moltiplica[va] i capitali investiti dell’organizzazione».

Già proprietario della villa romana di via Porta Ardeatina che, una volta confiscata, è diventata la Casa del Jazz, Enrico Nicoletti viene dal basso e si affaccia alla vita adulta vestendo la divisa di carabiniere. Ma la sua vera carriera non contempla stellette militari e inizia ormai quasi mezzo secolo fa facendo fruttare il denaro affidatogli da gente del suo quartiere, Centocelle. A lui si rivolge anche il già citato Flavio Carboni (http://domani.arcoiris.tv/?p=3277) e, dopo gli esordi della borgata, arriva a far circolare un sacco di denaro con prestiti dagli interessi esorbitanti e a maneggiare assegni dello Ior, l’Istituto per le opere di religione vaticano, passando per concessionarie d’auto che gli procurano denunce varie. Ma ciò non gli ha impedito di coltivare amicizie con magistrati (come Claudio Vitalone, ma anche con suo fratello Wilfredo, di professione avvocato), politici democristiani e socialisti di primo piano (da Giulio Andreotti e Salvo Andò) e uomini di tonaca.

Le conoscenze altolocate non cancellano però il fatto che parte del denaro che Nicoletti maneggiò proveniva dal gruppo dei Testaccini perché fosse ripulito. A presentarlo alla “bandaccia” capitolina era stato negli anni settanta Danilo Abbruciati – morto nel 1982 durante il tentato omicidio di Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi -, ai tempi del clan dei Marsigliesi di Albert Bergamelli. In quel periodo e ancora nel decennio successivo, sor Enrico – come Nicoletti era chiamato – è entrato e uscito dal carcere più volte per reati che da minori sono andati in un crescendo arrivando a comprendere il sospetto che fosse il mandante di un delitto.

Anche dopo il tracollo della mala romana d’inizio anni Ottanta, Nicoletti aveva continuato ad avere rapporti con De Pedis, per quanto nel periodo che precedette l’omicidio di Renatino fosse stato allontanato dalla cerchia dei fidati. Un po’ per un’intemperanza di Tony, uno dei quattro figli di Nicoletti (finito qualche anno fa con il fratello Massimo nel mirino della magistratura napoletana per presunti rapporti con i casalesi), di fronte a un debito di gioco da saldare: per evitare di pagare, aveva sbruffoneggiato minacciando l’intervento di De Pedis e sperando di intimidire i creditori. Un altro po’ anche per la mancanza d’azione che l’uomo d’”affari” aveva nell’investire il denaro del boss.

Ma Nicoletti, per il fisco, è arrivato quasi a non esistere. Dichiarò poco più di 400 mila lire nel 1990, l’anno in cui De Pedis morì, salvo poi essere trovato un possesso dalla guardia di finanza di una ventina d’auto, di cui diverse di lusso, natanti, case, appartamenti e negozi. Tutta roba non intestata a lui, che giocava la carta del nullatenente al punto da chiedere aiuto alle strutture pubbliche.

Eppure erano diventate innegabili le amicizie con i banchieri che operavano in filiali di comodo della Cassa di risparmio di Roma e in quella di Rieti. C’erano poi le compravendite immobiliari, come quella dell’attuale Casa del Jazz, acquistata dal Vaticano, e le aste fallimentari, dove investimenti modesti facevano prosperare speculazioni del mattone a spese anche del pubblico, come nel caso del contratto con l’università di Tor Vergata e relative (quanto provvidenziali) modifiche ai piani regolatori. C’era l’idea di abbracciare il business dei casinò aprendone di nuovi e c’erano anche i rapporti con persone del calibro di Ciro Maresca, il figlio di Pupetta, donna d’onore della camorra, e di Alvaro Pompili, l’usciere del ministero della sanità dove la Magliana e i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro avevano la loro santabarbara.

Ma tutto ciò, a sentire le sue dichiarazioni più recenti dell’ormai anziano “imprenditore” – eco di quanto disse in tribunale fin dal 1996 e che ribadì ancora ai giornali nel 2005 e nel 2008 -, era tutta colpa dei giudici “comunisti” (come s’era presa l’abitudine di affermare fin dalla seconda metà degli anni Settanta, quando i guai giudiziari piombarono addosso a un altro protagonista della storia criminale italiana, Michele Sindona). Questa dunque è la storia di colui che si presenta come un pensionato che vive della magnanimità dei conoscenti pur avendo potuto permettersi, negli anni Ottanta, di snobbare la famiglia Caltagirone e di rifiutare raccomandazioni a Giuseppe Ciarrapico. Colui che mise mano al portafogli quando si trattò di mettere insieme il denaro per liberare Ciro Cirillo, l’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania sequestrato dalle Brigate Rosse, e che poté permettersi – dice – di togliere il suo appoggio alla corrente andreottiana per affidarsi a quella di Vittorio Sbardella, dopo l’omicidio di Salvo Lima, ucciso a Palermo nel marzo 1992 da un commando di cosa nostra tradita dai suoi referenti politici.

(Questo articolo è stato pubblicato sul Domani di Maurizio Chierici nella rubrica I peggiori protagonisti della nostra storia.)

    


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