Può sembrare un paradosso: un autore può avere dei pregiudizi, ed essere di una banalità sconcertante; ma i suoi personaggi non possono essere tagliati con l’accetta. Di più: lui può essere brutto sporco e cattivo, ma all’interno delle sue storie i protagonisti devono possedere una complessità, una profondità a regola d’arte.
O quasi.
Sembra un’affermazione di nessuna importanza. Eppure posso garantire che quando si comincia a scribacchiare, lo si fa spesso per esportare noi stessi sulla pagina. Lo scopo non è quasi mai raccontare una storia, o presentare uno sviluppo credibile e dei personaggi “vivi”.
Sia chiaro: l’esportazione è una pratica buona e sana se applicata per esempio alle merci (di questi tempi poi, è una benedizione). Nella scrittura rischia di produrre delle sbiadite fotocopie di noi stessi.
Quello che si deve imparare in fretta (ammesso che ci sia del talento) è che un personaggio ha una sua dignità. Lo so che esiste solo sulla pagina, e via discorrendo. Però tutti sappiamo (o dovremmo sapere) che Raskolnikov, oppure il capitano Achab quando li incontriamo diventano carne e ossa. Da qualche parte, nella nostra mente, una vocina stridula dice: “Ma perché stai qui a leggere queste fandonie. Fatti un giro. C’è quel nuovo pub da vedere dove servono birra artigianale niente male”.
Ma noi restiamo a San Pietroburgo, o a bordo della baleniera Pequod. Non ce ne importa niente della birra (al momento almeno). E questa specie di malia è possibile solo quando l’autore ha rispettato il suo personaggio.
Ha imparato a frequentarlo, a conoscerlo. Non è un burattino (legno e stoffa), ma un essere umano (carne e sangue). Ed è dimostrato scientificamente (o quasi) che la carne e il sangue, uniti a un cervello, producono delle interessanti, imprevedibili reazioni.
Stiamo tornando all’affermazione con la quale ho aperto il post: i personaggi non possono essere tagliati con l’accetta. Ammetto che forse il romanzo richiede uno studio più approfondito, rispetto a un racconto. Mi consola sapere che Cechov non ha mai scritto un solo romanzo proprio perché li considerava difficili da scrivere.
Però non possiamo cadere nell’errore di credere un racconto più semplice.
Se c’è di mezzo la parola, niente è semplice. Siccome la scrittura ha a che vedere con la vita, questa non è mai bianca o nera. Una lezione che uno scrittore dovrebbe far sua, è questa: la vita è complessa, piena di sporco e polvere e graffia. Se viene riconosciuta questa sua qualità, i furori da riformatore dei costumi, andranno al diavolo (dove dovrebbero stare sempre, in effetti).
Qualcuno potrebbe affermare che se si pensa solo a scrivere, o a scrivere bene, si producono solo dei libri che si intonano perfettamente con il colore della tappezzeria.
Questo è il discorso da fare in tre, ma due andarsene (come si dice da queste parti). Le librerie italiane sono zeppe di opere impegnate che prendono polvere, se è per questo.
La parola ha una forza capace di scuotere l’individuo, anche se parla di prati e ruscelli. Essa esiste per ricordare a ciascuno di noi che egli esiste, è unico, e anche se è solo ha un valore. Anche se non fa niente, conta. E il primo dovere e impegno che deve difendere con forza è la propria unicità.
Charles Bukowski, disimpegnato, sgradevole, riesce a colpire molto più di tanti autori impegnati. Non perché scrive “cazzo” nelle sue storie.
Perché sapeva fare bene il suo mestiere. Aveva talento.
Un uomo o è un artista o una mezzasega, e non deve rispondere a nient’altro, direi, se non alla propria energia creativa.