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“Nietzsche e la poesia” – a cura di Annalisa Caputo, Michele Bracco

Creato il 25 agosto 2012 da Temperamente

Caputo Bracco«Ho volato migliaia di miglia al di sopra di tutto ciò che finora si chiamava poesia».

Questa frase di Nietzsche, riferita al ritmo e allo stile dello Zarathustra, mi ha sempre colpito molto; non poteva non farmi gola, dunque, Nietzsche e la poesia, l’interessante novità editoriale che propongo oggi, 25 agosto, anniversario della morte del filosofo.

Il volume, che raccoglie cinque saggi, si apre con un contributo di Annalisa Caputo sull’opera poetico-filosofica per eccellenza, Così parlò Zarathustra. Se per Nietzsche il limite della poesia risiede nell’arpeggio di superficie (che smarrisce il peso delle parole), quello della filosofia dipende invece dalla sua a-musicalità (che appesantisce le parole). Ecco allora che lo Zarathustra si configura come un ‘canto’ – un ‘canto di dolore’ – che fa dell’indistinguibile intreccio di parole e musica il suo tratto distintivo. E se quella di Nietzsche e di Zarathustra (e dell’oltre-uomo) è «passione dei suoni e danza delle parole», si potrà ben dire che non si tratta già più di poesia, ma di “oltre-poesia”. Per certi versi, il saggio di Caputo mi fa pensare a quella “ultrafilosofia” di cui parlava Giacomo Leopardi nei suoi nei Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura (o Zibaldone) e che consiste nel colpo d’occhio del genio che tiene unite poesia e filosofia. Tuttavia, se per Leopardi l’ultrafilosofia conosce «l’intiero e l’intimo delle cose», per Nietzsche l’uomo non è capace del vero; la poesia stessa è incapace di cogliere la rivelazione del Vero, e con essa la filosofia: la nostra ‘mortalità’ e la nostra ‘finitezza’ ci impediscono di illuderci, riportandoci ai limiti del nostro sapere e del nostro essere. L’argomento, introdotto dalla professoressa Caputo, viene ripreso con differenti modalità nei saggi di Gemma Adesso, Francesca Avelluto ed Eleonora Palmentura.

Sorprendente è il contributo di Gemma Adesso: per la sicurezza dell’esposizione, per la padronanza della materia, per i riferimenti dotti (che vanno da Deleuze a Foucault, da Blanchot a Lacan, fino a Slavoj Žižek). Proposito dell’autrice è mostrare che tanto in Nietzsche quanto in Dino Campana il linguaggio della filosofia e quello della poesia si confondono (proprio nel senso che si “con-fondono”) sino a sfociare nella «dissoluzione del Soggetto e del Linguaggio» e nella dispersione della stessa realtà. Temi destinati a riaffacciarsi nel saggio di Francesca Avelluto sulla ‘voce di Nietzsche in Pessoa’: satiro del nuovo paganesimo portoghese, Pessoa rinnega la corrispondenza fra pensiero, linguaggio ed essere, mostrando – come Nietzsche – «l’inadempienza del pensiero e l’insolvenza della parola». Ovvero: il nome non ‘tiene’ più l’idea, perché «in essa l’essere è già perduto» e perché la realtà, intesa come ‘fenomeno’ che sta oggettivamente davanti al soggetto, «si dissolve totalmente» (e qui, in poche pagine, la giovane Francesca Avelluto dimostra di essere molto più filosofa di un parruccone come Maurizio Ferraris). Su questa falsariga, dicevamo, si pone anche il saggio di Eleonora Palmentura sul ‘Nietzsche di Gadamer’. Un saggio sul dramma del finito, ovvero sulla consapevolezza di Nietzsche di essere un limite (e non già più di avere un limite). Dopo aver accuratamente analizzato vari scritti di Gadamer, Palmentura afferma, e a ragione, che il terzo libro dello Zarathustra «cattura con l’incalzare di toni drammatici, di mormorii pieni di paura, di pensieri che non riescono a essere accolti dalla parola». Tratti dalle rispettive tesi di laurea, i lavori di queste giovani filosofe dimostrano, a mio giudizio, proprio questo: che non ci sono parole capaci di “ac-cogliere” i pensieri di Nietzsche e che egli, nondimeno, è uno dei pochi filosofi che, risultando interessante anche da un punto di vista ‘letterario’, riesce a conquistare facilmente anche il lettore non appassionato/esperto di filosofia.

E veniamo, finalmente, al saggio di Michele Bracco, che affronta il tema della poesia in Nietzsche a partire dalla sua relazione col ritmo. Sono queste le pagine più complesse – nel senso di ‘ricche’ e non di ‘complicate’ – dell’intero volume, in quanto Bracco analizza il concetto di ritmo da molteplici punti di vista: storico e filologico (il ritmo nella Grecia classica), fisiologico e ontologico (il ritmo come relazione inestinguibile tra corpo e mondo), estetico e musicale (la degenerazione del senso ritmico nella querelle tra Nietzsche e Wagner), filosofico e linguistico. Particolarmente pregnante, a tal proposito, l’interesse di Nietzsche per il potere ‘decostruttivo’ che il ritmo esercita nella lingua poetica: decostruendo la parola dal suo contesto di rimandi storico-linguistici, il ritmo diventa ciò che «conferisce un nuovo colore al pensiero rendendolo più cupo, più lontano, più estraneo». In altre parole: il ritmo, insinuandosi nella lingua, allontana i pensieri e le emozioni dai soggetti che li vivono, e, in tal modo, cupezza, lontananza ed estraneità finiscono proprio col ‘rischiarare’ quei vissuti che, in caso contrario, risulterebbero troppo ‘vicini’ per essere colti nella loro essenza. Concludo: leggendo questi saggi mi è venuta in mente una splendida frase di Daniil Charms, una frase che sembra perfetta per Nietzsche:

«Bisogna scrivere versi tali che a gettare una poesia contro la finestra il vetro si deve rompere».

Andrea Corona

Annalisa Caputo, Michele Bracco, Nietzsche e la poesia, Stilo Editrice, Bari 2012, 224 pp., € 20,00.


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Da Daniela Colosso
Inviato il 16 novembre a 21:39

Ele, qui é citato il tuo nome. Che emozione sapere che sei proprio tu, la mia nipotissima. <3 <3 <3