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L’incubo, pane che Shinya mastica abilmente fin dai metallici esordi, diventa la realtà - o è la realtà ad essere un incubo per gli aspiranti suicidi?- attraverso cui il regista, in una sofferta autoriflessione, trascina lo spettatore. È un limbo, non-luogo, territorio di confine e anche oltre. È il suo cinema. Tsukamoto se ne sta laggiù, immerso nell’ombra attaccato a quel futile strumento che in A Snake of June (2002) salvava una vita dalla morte, mentre qua mortifica il senso della vita: un cellulare. I suoi film sono i miei incubi peggiori, e guardarli è provare paura. Ma lui, sì lui, non posso pensare che abbia la stessa paura, invece ce l’ha, ce l’ha sempre, ed è solo con il suo coltello.
Stop!
Ora è fermo di fronte a me, c’è del fumo intorno a noi, sembra un sogno (forse è un film), la punta di metallo luccica in modo sinistro, prova a colpirmi: ci riesce. Lo ha già fatto altre volte, mi ha sempre fatto male. Anche lui soffre però; rigagnoli di sangue gli uniscono la bocca agli occhi. Io sono l’uomo che entra negli incubi, nei suoi, per questo mi odia. Io credo di voler la morte, confusione, mi piace sentire quello che lui dice su di essa. Poi tutto si rallenta, e si espande nell’indeterminatezza dell’incognita. Vedo sangue e carne viva, eppure sento brandelli di vita che scorrono, ricordi d’infanzia: l’acqua, le nuvole, il vento, sono pezzetti di esistenza, mia sua o di entrambi non ha importanza, o forse ce l’ha, ma sono io che non riesco a capire. Anzi sì! Capisco che io devo salvarmi perché lo vuole una donna, un essere umano come me, lo vogliamo entrambi perché forse nelle persone non ci sono solo cose orribili, sì ecco, potrebbe esserci qualcosa di buono, lo sento! E vale la pena cercarlo questo qualcosa. Shinya salta nell’abisso, torna all’origine, al nulla, allo Zero. Sono sicuro che ricomparirà, però. Perché gli incubi non ci abbandonano mai.
Azione!
Tsukamotianamente parlando non si staglia di fronte, e dietro e sopra e sotto a noi l’ossessione totale che questo cineasta ha trasmesso per buona parte della sua carriera. Sarà un po’ l’impostazione crime che imbolsisce la vicenda appiattendola con i suoi cliché investigativi, o magari la lingua italiana che messa sulla bocca di questi giapponesi ha un riverbero decisamente imbecille. Sta di fatto che Nightmare Detective, alla luce sinistra dei suoi predecessori, non ne ha la stessa possenza .
Comunque, guai a pensarne male. Tsukamoto è l’unico autore che conosco in grado di sposare con maestria l’orrore della vita, e della morte, nel cinema dell’orrore.
Il che dà un senso di pulsazione, di stretta, di crampo, come quando nelle digestioni difficili qualcosa si ingorga nello stomaco e duole, per poi sciogliersi nel giusto andamento viscerale.
(Dino Buzzati, Sessanta racconti, Mondatori; 1958)
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