Io non ho ancora capito perché, oltre ai cinque sensi canonici e all’eventuale sesto (di cui, peraltro, ben poche persone sembrano dotate, se si esclude un nutrito gruppo di ciarlatani), non sia mai stato preso ufficialmente in considerazione il senso dell’umorismo. Ognuno ha il suo, e questo va da sé – un po’ come il gusto, in definitiva, se no non si capirebbe il motivo per cui certa gente va matta per i cachi, mentre a me provocano un voltastomaco pressoché istantaneo. Insomma, avete capito quello che intendo: una cosa (un film, un libro, un gesto, una battuta) che fa scompisciare uno dalle risate, in un altro provoca un sorrisino di cortesia lasciando un terzo del tutto indifferente. Ci pensavo l’altro giorno all’uscita del cinema.
Un’amica mi ha trascinata a vedere Sole a catinelle. Vedrai, un capolavoro, ti devi tenere la pancia dal ridere, e dài, e vieni, e su, io me lo rivedo volentieri una seconda volta. Sono andata più perplessa che contrariata.
Non che sia una musona, tutt’altro. Semmai sono una bastiana contraria (non l’ho mai vista al femminile, ‘st’espressione), perché non
appena metto piede in un cinema in cui proiettano un film cosiddetto « comico » vengo colpita ipso facto da una paralisi facciale e rimango lì impietrita per tutta la durata del film che manco una statua di Madame Tussauds. Per Sole a catinelle ho fatto un’eccezione: quando sono uscita avevo una smorfia sul volto che la Merkel, al confronto, era uno di quegli emoticon ridanciani.Ma insomma, mi ha detto spazientita la mia amica, non c’è proprio niente che ti faccia ridere? Eppure sei sempre stata una donna divertente…
Beh, una cosa che mi ha sempre fatto ridere è quando qualcuno piglia una storta per la strada – lo so, non sta bene ridere delle disgrazie altrui, ma la faccia atterrita di una persona che tenta di evitare una caduta rovinosa a me ha sempre divertito. Ma si stava parlando di film e allora m’è venuta in mente la scena di Fra Diavolo con Stanlio ubriaco fradicio che, pian piano, spinge Ollio a ridere a crepapelle fino all’immancabile gaffe finale. Ecco, quella scena mi farebbe ridere pure se la vedessi cento volte di seguito.Nondimeno, citarla lì a mo’ di esempio avrebbe voluto dire che da ottant’anni a questa parte il pianeta terra non ha prodotto nulla di divertente, almeno secondo il mio punto di vista. Eppure ci divertivamo un mondo, m’incalzava l’amica dalla risata facile, quando andavamo a vedere Woody Allen. È vero, Allen mi piaceva un sacco. Ma quando ho letto un suo libercolo che, stando almeno alle recensioni, avrebbe dovuto farmi sbellicare dalle risate a partire dal titolo per finire col prezzo di copertina, i miei zigomi sono rimasti impassibili. L’accenno a Woody Allen è servito però a spostare il discorso umoristico dai film ai libri, altra nota dolente (sempre a mio tetro avviso) della comicità divulgata.Non lo so, forse sono io che ho qualcosa di sbagliato. E sì che avrei tanta voglia di ridere davanti a una pagina stampata. Ho letto John Mortimer, George Mikes e Alan Bennett senza accentuare in alcun modo le zampe di gallina che incorniciano i miei verdi e al tempo stesso non più verdi occhi.
Dice: sarai insensibile allo humor inglese (o naturalizzato tale – Mikes nacque ungherese: spe- cifichiamolo, prima che parta il cruficige di qualche zelantone). Ma allora pure l’umorismo francese non attecchisce su di me, ché le cento e più pagine di Régis Mailhot che mi sono sciroppata, dietro consiglio di un’altra amica entusiasta, per cercare ristoro dal grigiore di un’estate particolarmente soffocante mi hanno fatta piombare in uno stato di cupo e afoso abbattimento. Varcando i Pirenei, devo ammettere che sì, di recente ho scoperto un autore assai divertente: si tratta di Eduardo Mendoza, di cui ho letto (in traduzione italiana) Nessuna notizia di Gurb e O la borsa o la vita. In quest’ultimo ho ritrovato uno squinternato detective mezzo psicopatico le cui vicende smitizzano, in un certo senso, un genere giallo-noir ormai un po’ troppo inflazionato, e c’è da sperare che Feltrinelli continui a tradurlo perché ha scritto alcuni racconti davvero simpatici.
Sul fronte italiano, tralasciando l’umorismo discreto di uno Stefano Benni, che tuttavia non mi ha mai provocato una grassa risata, ho provato a rivolgermi a comici di professione per andare sul sicuro. Ma la Littizzetto mi aveva lasciata indifferente come il gambo di sedano citato in quel titolo, mentre la Marchesini, di cui mi ero precipitata a comprare il primo libro sperando di rivivere sulla carta stampata le esilaranti esperienze vissute in tivù o a teatro, mi ha sorpresa per la sua seriosità – non sospettavo minimamente che si fosse messa a scrivere disattivando la sua impagabile verve comica. Persino la comicità di una Franca Valeri sembra perdere vigore quando la parola da parlata diventa scritta. Ma allora non c’è un solo libro che ti abbia fatta ridere di cuore, ha chiesto sconsolata la mia amica. Sì che c’è. Anzi, ce ne sono due.
Il primo è La mia famiglia e altri animali, di Gerald Durrell. Una storia garbata e originale: una variegata famigliola – madre e diversi figli uno più strampalato dell’altro – lasciano la natia Inghilterra a seguito della morte del capofamiglia e si installano a Corfù per ragioni, mi pare, economiche (non prendete per buono tutto quello che dico: io sono una lettrice veloce e dimentico in fretta gran parte di quello che leggo); il piccolo, che è poi l’autore del libro, scoprirà fra la vegetazione dell’isola greca la sua passione per la zoologia. Detta così, sembra che non ci sia niente da ridere. E invece è il libro più divertente che abbia mai letto. Certo, dopo la premessa che ho fatto a proposito del senso individuale dell’umorismo, questa affermazione ha il valore che ha, ma a me, sinceramente, non era mai capitato di dover interrompere la lettura per andarmi a lavare la faccia. Tradotto benissimo, il romanzo (autobiografico) scorre via che è un piacere. E di tanto in tanto, zac!, ti arriva la facezia che ti fa – o, almeno, che mi fa – letteralmente scoppiare dal ridere. Ma le battute non si susseguono una dietro l’altra: sono sapientemente dosate lungo tutto il libro e arrivano quando meno te l’aspetti (un’altra cosa che mi ha sempre innervosita della comicità imperante – vedi il film di cui parlavo in apertura – è che le spiritosaggini ti vengono proposte a raffica: non c’è niente di meglio per non fartene apprezzare manco una). Anche nella comicità, come per tante altre manifestazioni del vivere umano, si direbbe che la virtù rifugga gli eccessi…Insomma, secondo me il libro di Durrell è divertente da morire. L’ho regalato spesso, quasi sempre ad adolescenti con poca o punta voglia di leggere, e ogni volta ha suscitato commenti entusiastici – è sempre interessante capire come nasce una passione e cosa (non) fare per ostacolarla. Ma non mi si fraintenda: la mamma dei Durrell, distratta e affettuosa com’è, è un personaggio tenerissimo.
Del secondo libro parlerò un’altra volta, abbordando magari anche lo spinoso tema delle traduzioni – se non avessi imparato che bisogna far tirare un po’ il collo ai lettori, vorrebbe dire che tutto il Ken Follett che mi sono letta non mi ha insegnato nulla…
A risentirci.