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Nihon kuroshakai (日本黒社会, Ley Lines)

Creato il 14 marzo 2012 da Makoto @makotoster
*** Flashback ***
Nihon kuroshakai (日本黒社会, Ley Lines)Nihon kuroshakai (日本黒社会, Ley Lines). Regia: Miike Takashi. Sceneggiatura: Ryū Ichirō. Fotografia: Imaizumi Naosuke. Luci: Shiroishi Seiichi. Scenografia: Ishige Akira. Montaggio: Shimamura Yasushi. Musica: Endō Kōji. Suono: Satō Yukiya. Interpretie personaggi: Kitamura Kazuki (Ryūichi), Aikawa Shō (Ikeda), KashiwayaMichisuke (Shunrei), Dan Li (Anita), Taguchi Tomorowo (Shunrei), Takenaka Naoto(Wong), Samuel “Pop” Aning (Barbie). Produzione:Kimura Toshiki per Daiei, Excellent Fim. Durata:105’. Prima uscita in Gippone: 22maggio 1999.Links: Simon Hill (Celluloids Dreams) - Bob Turnbull (JFilm Pow-wow)Punteggio ★★★★  
Terzo capitolo della trilogia«The Black Society» – preceduto da ShinjukuTriad Society (1995) e Rainy Dog (1997)–, Ley Lines ritorna alla Tokyo diKabukichō (il quartiere dei “divertimenti” di Shinjuku) dopo il viaggio aTaipei del già citato Rainy Dog.Proprio qui, in cerca di fortuna e provenienti da una remota provincia,arrivano i fratelli Ryūichi e Shunrei, insieme all’amico Chan. Tutti e treappartengono a famiglie di origine cinese e, fra le diverse ragioni che lihanno spinti alla fuga, c’è anche quella del volersi sottrarre allediscriminazioni subite. A Tokyo (in una scena che sembra essere un esplicitoomaggio allo Hou Hsiao-hsien di The Boysfrom Fengkuei, 1983)[1], sonoraggirati e derubati da Anita, una prostituta nata a Shanghai, si mettono aspacciare toluene (un solvente usato come droga) per conto di Ikeda, e cercanoil modo di procurarsi dei passaporti falsi per lasciare definitivamente ilGiappone. Ritrovata Anita, e stretta con questa un’amicizia a quattro, Ryūichie i suoi decidono di rapinare Wong, il capo di una triade cinese da cui lastessa Anita è sfruttata. In fuga col malloppo, i quattro giovani saranno inseguitie braccati da Wong e i suoi uomini. Ley Lynes si apre con un prologo in cui Ryūichi e Shunrei, ancorabambini, sono fermati da alcuni coetanei che li invitano a tornarsene nellaloro patria chiamandoli «luridi cinesi mangia lumache». Sin dalle sue primeimmagini, il film pone così il tema, assai caro al cinema di Miike, delledifficili condizioni di vita dei figli di immigrati, di coloro che pure nati inGiappone appartengono a famiglie in cui non scorre il sangue di quel paese,come per Ryūichi e Shunrei, o di chi vi è in prima persona dovuto immigrare,come per Anita e il ghanese “Barbie”. Il Giappone di Miike – in cui le immaginidi spazzatura ricorrono con una certa frequenza – si configura così come unaterra inospitale e razzista – «Fanculo, questa città mi fa schifo» urla Chan,dall’alto di un palazzo –, dove l’odio per l’altro sembra rivolgersi conparticolare accanimento verso coloro che, come i cinesi, o in altri film icoreani, sono fisicamente più simili e quindi non immediatamente identificabilicome diversi. Se il sommarsi di discriminazione e povertà spinge gli immigrati,o i loro figli, a cercare una soluzione di vita nel mondo della criminalitàspicciola (qui lo spaccio di toluene), c’è anche chi ha saputo scalare questomondo arrivando a conquistare una posizione di prestigio, come è il caso diWong, che sembra essere riuscito a costruirsi un pezzo della sua vecchia Cina,dove vive pressoché isolato raccontandosi vecchie fiabe e leggende del propriopaese. Quando Wong incontra Ryūichi e Shunrei, si stupisce quasi dei lorotentativi di lasciare il Giappone, e, dall’alto della sua posizione di boss,gli dice: «Questo è proprio un paese meraviglioso, non credete? Quando arrivaiqua: soldi, macchine, donne… Ho avuto tutto ciò che volevo». Il mondo delcrimine è così per molti immigrati una scelta che finisce col gettarli ancorapiù ai margini della società, ma per qualcuno è anche il mezzo di una vera epropria scalata sociale. Il desiderio di fuga – ricorrente nel cinema di Miike– riguarderà ovviamente i primi, ma non i secondi.Fra le tante “anime ferite” delfilm, quella che sembra esserlo di più è Anita (il cui personaggio ricorda davicino quello della giovane prostituta di RainyDog) che a Shanghai era maestra d’asilo e a Tokyo, invece, vive vendendo ilproprio corpo. Le vessazioni e violenze che la giovane subisce sono equamenteripartire tra giapponesi (il giovane salarymansadico che la lega, e introduce a forza nella sua vagina uno speculum in cui poi versa dell’alcol) ecinesi (il suo protettore che la prende a calci per strada, incurante del suostato di shock). La violenza è ovunque ed è di tutti: non è una conseguenza delrazzismo, semmai ne è una causa. È la natura bestiale dell’uomo che lo spingeanche ad essere razzista (e non viceversa). Anche il sesso nel film ha unanatura ambivalente: da una parte nel suo configurarsi come sopruso eperversione (il già citato episodio del salaryman)è espressione del male e della decadenza morale che ci circonda, dall’altra,però, esso assume anche una valenza positiva, di affetto e comunicazione, comequando Anita decide di fare l’amore con un eccitatissimo Chan – che non riesceletteralmemte più a “stare nei pantaloni” – senza volere del denaro in cambio[2]. Dei tre atti della trilogia «TheBlack Society», Ley Lines appareforse il più mosso e vivace. Il film è dominato dall’uso di filtri, secondo icasi verdi, rossi o blu, che conferiscono alle immagini un tono espressionistae livido, in perfetta sintonia con gli ambienti e le situazioni rappresentate.Molte sequenze sono riprese con l’uso della macchina a mano e prolungati long take che talvolta sfociano, allafine delle scene, in intensi primi piani (come quelli fra Anita e Ryūichi,quando questa decide di unirsi ai tre amici per fuggire con loro in Brasile).Un tono Nouvelle Vague è costruito dalle riprese rubate per le vie di Kabukichō(con i passanti che guardano esplicitamente verso la macchina da presa) e daquello dei jump cut (ad esempio nellascena dei quattro che pranzano su un terrazzo, in uno dei pochissimi momenti diserenità del film), mentre alcuni punti di vista estremi sono propri a certocinema postmoderno: la “soggettiva” della vagina di Anita, mentre il salarymanabusa di lei, se da una parte si afferma come una sorta di evidente (e un po’malsana) attrazione, dall’altra ben si confà all’eccezionalità (altrettantomalsana) di ciò che in quel momento accade. La dimensione mesta del film, larealtà drammatica in cui i personaggi sono immersi, il carattere utopico di ognivia di fuga sono bene espressi dalla dolente musica di accordéon che neaccompagna diverse scene, da immagini dal carattere simbolico (come quelladella goccia che cade sull’occhio di un pesce morto provocandone unafuoriuscita di sangue) e dall’onirico – e impossibile – finale, in cui lamacchina da presa si allontana dalla barca a remi di Ryūichi e Anita sino adarrivare ad un campo lunghissimo che li cancella dall’immagine gettandoli inuna distesa d’acqua dove tutto è uguale e niente sembra poter cambiare. [DarioTomasi]

[1] L’omaggio al cinema di HouHsiao-hsien si evidenzia anche nell’insistita presenza di quei treni e diquelle piccole stazioni tanto care al regista taiwanese. Alla ferrovia, comepossibilità di fuga, rimandano anche le parole della canzone intonata da Ryūichiall’inizio e alla fine del film.[2] Anita farà del sesso contutti e tre i suoi amici, Ryūichi, Shunrei e Chan, coi quali di fatto formeràuna sorta di famiglia di reietti non dissimile da quella, volendo piùtradizionale, di Rainy Dog.

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