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Nihon no higeki (日本の悲劇, Japan's Tragedy). Regia e sceneggiatura: Kobayashi Masahiro. Interpreti e personaggi: Nakadai Tatsuya (Murai Fujio), Omori Akemi, Terajima Shinobu, Kitamura Kazuki. Produzione: Kobayashi Masahiro per Monkey Town Production. Durata: 101’. Prima proiezione pubblica: 5 ottobre 2012 Busan International Film Festival
Punteggio ★★★★
Dopo Women on the Edge (Girigiri no onnatachi, 2011), il cinquantottenne Kobayashi Masahiro, uno dei maggiori e più negletti autori del cinema giapponese contemporaneo, ritorna al dramma di Fukushima, sebbene in modo meno diretto che non nel lavoro precedente, con un film che già dal titolo, Japan’s Tragedy (Nihon no higeki), una esplicita citazione dell’omonimo capolavoro di Kinoshita Keisuke del 1953, si colloca immediatamente, e non solo sul piano intenzionale, nell’alveo della miglior tradizione del cinema giapponese. Di questa, Kobayashi riprende sia la forte dimensione umanista, con una capacità particolare di sondare l’animo umano in tutte le sue sfumature, da un lato, e contraddizioni, dall’altro, sia quell’intensità e rigore stilistici che fanno della messinscena non semplicemente una “messinforma”, ma una vera e propria visione del mondo, nella sua più ampia accezione possibile. Japan’s Tragedy si concentra sul rapporto di un padre vedovo e malato di cancro ai polmoni, Fujio (magistralmente interpretato da quel “grande vecchio” del cinema giapponese che è l’ottantenne Nakadai Tatsuya), e di un figlio separato e disoccupato, Yoshio. La storia inizia col figlio che riaccompagna a casa il padre dall’ospedale, dopo che questi ha rinunciato a sottoporsi ad un’operazione e a qualsiasi possibile cura. Le intenzioni Fujio sono, come lui stesso comunicherà subito a Yoshio, molto chiare: chiudersi nella stanza dove si trovano l’altare funebre e la fotografia commemorativa della moglie scomparsa da un anno, e lasciarsi morire senza più mangiare né bere (sì proprio come in Mi farò mummiadi Shimada Masahiko). Tutto il film si svolge sostanzialmente in tre stanze – la cucina, la camera “funebre” e il corridoio – e in due tempi – il presente, che abbiamo descritto, e il passato, in cui sono rievocati alcuni momenti della vita familiare dei due protagonisti e delle loro consorti, e in cui ritornano sempre alcuni motivi drammatici come la separazione di Yoshio dalla moglie Tomoko, il conseguente rancore del padre nei confronti del figlio, e l’eccessivo indulgere nel saké da parte dello stesso Fujio, cui vanamente la moglie cerca di opporsi –. Tutto girato in un solenne bianco e nero – con l’unica eccezione del ricordo “relativamente” felice in cui Yoshio e Tomoko si recano dai genitori per mostrare loro il figlio appena avuto, ma in cui già si ritrovano segni del dramma a venire – il film si affida perlopiù a long takefissi, con qualche raro, ma per questo particolarmente indicativo, movimento di macchina, come i due che, in apertura e chiusura di una scena, prima accompagnano il figlio, dal ritratto della madre al tavolo della cucina, e poi il padre, questa volta dal tavolo al ritratto, ad indicare così il comune sentimento di vicinanza alla donna scomparsa. In questa vera e propria scelta di “economia formale” – la stessa che Schrader celebrava a riguardo di Ozu, Dreyer e Bresson – e in cui risuonano i grandi e possibili drammi dell’esistenza, dalla malattia alla morte, dalla separazione alla perdita del lavoro, sino allo stesso terremoto, spiccano alcune soluzioni di stile di grande efficacia, come l’insistito ricorso a campi vuoti e a “code” nere che, dopo una dissolvenza in chiusura, permangono a lungo sullo schermo, lasciando così tempo al fluire di quei sentimenti evocati nello spettatore da ciò che è appena accaduto. In particolare Japan’s Tragedy eccelle nell’uso del fuori campo, che affida ai rumori off il compito di svolgere la narrazione. Ne sono un esempio, forse il più probante, le scene in cui il padre sente squillare il telefono e, sperando che possa trattasi di una chiamata di Tomoko, segue con apprensione i rumori dei passi del figlio che si avvicina all’apparecchio senza però arrivare in tempo, o, in altri casi, continua nelle sue “rumorose” occupazioni che gli impediscono sentire il suono del telefono. I sentimenti di speranza, apprensione e delusione del padre, nascono così dall’efficace dialettica che si instaura fra le immagini in primo piano del suo volto, insieme alle parole che questi sussurra, e i rumori che provengono dal fuori campo, da quello spazio, cioè, in cui l’uomo ha deciso di non più vivere. È proprio l’intensità espressiva di questi e altri momenti del film a fare davvero del suo autore un vero e proprio maestro di stile. [Dario Tomasi – Busan International Film Festival]
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