Nina dei lupi di Alessandro Bertante (Marsilio) sfugge a definizioni limitanti e limitate; se n’è parlato non poco nei mesi scorsi, anche perché concorreva allo Strega, sostenuto da un gruppo nutrito su Facebook. Non fra i cinque finalisti, ha raccolto critiche positive e negative, perlopiù poste agli estremi.
Nina rappresenta un soggetto e un oggetto, soggetto agente e oggetto di percorso umano, soggetto che scopre la femminilità nonostante la tragedia occorsa e oggetto di chiarificazione del confronto con l’altro: un altro che le si presenta nelle forme che invocano un passato indistinto, che si vorrebbe indistinto, dimenticando le violenze, e che la memoria riverbera dentro il suo io che si disgrega nei segni (segni intuiti?). Ma prima della femminilità, vi sono compiti e integrazioni con un mondo di abitudini create per la conservazione di un equilibrio nelle condizioni estreme, lì nasce l’incedere del ritmo narrativo di Nina dei lupi, lì mutano le strutture d’azione per il contorno apocalittico che precedono la riappropriazione d’un baricentro emotivo. La soglia diafana che potrebbe precipitare nella follia è fra i timori di Nina, il possibile arrivo dei predoni, l’estinzione della quantità di sangue, ma non solo. I tentativi per alleggiare l’odore di morte sono vani per gran parte del romanzo, un odore che trionfa a causa dei predoni, dei lupi e della scarsità di beni primari.
Bertante snoda nella prosa i cerchi aperti nella prima parte del libro, chiudendoli facendo incalzare il ritmo al contrario, mansuefacendo gli ardori dei romanzi di formazione, spesso rivolti all’accelerazione ostentata, non qui; Nina dei lupi opera – in una fisiologica quanto magica esasperazione della mancanza – su tre fronti: la metabolizzazione dell’immaginario rispetto alla tragedia, la comunicazione assoggettata ai ritmi della quotidianità sofferta e la scoperta del nuovo che sfrega contro l’imprevedibile.
Sono stati citati alcuni autori americani per incasellare Nina dei lupi in categorie di genere, fra i quali Cormac McCarthy, nulla di più fuorviante; esiste un rimando evocativo possibile a La strada, parcellizzato. Associazioni che appaiono del tutto superficiali: Bertante si spinge oltre, ben oltre, nidificando una cornice che potrebbe (ri)aprire filoni che si affiancano ad altri autori, si pensi a certe evocazioni fantascientifiche del russo Sergey Lukyanenko o – in tale senso (ri)aprire filoni – a Gabriel García Márquez.
Nel primo fronte metabolico non si annusa, seppur esplicitato su modalità post moderne, un nostalgico rimando a tematiche di Rigoni Stern, per esempio alla raccolta di racconti Ritorno sul Don? Rispetto al secondo fronte, non si annusa la vita nei boschi di Henry David Thoreau? E sul terzo fronte non si annusa tematiche puramente dostoieschiane?
Premeditata in maniera esemplare la narrazione della cesura fra il prima e il dopo, e in questo Diana, col suo esplodere di segni magici, col suo affrontare la dicotomia realtà/irrealtà presunta dei mondo interiori, collima a rendere ancor più umano il percorso di Nina. Bertante conserva per tutta la narrazione il pregio di trattare senza sospetto le leggende di tempi andati, però ancora presenti nell’immaginario popolare.
Quanta iconografia assimetrica e per questo perfetta vi sarebbe stata se Nina dei lupi fosse stato un romanzo illustrato? Quanto sfarinato e prezioso diviene il verosimile nei suoi sentieri se il rapporto magico fra alcuni personaggi, al pari di un quaternione per un profano di matematica, non induce il lettore ad andare oltre la mera e passiva sequenza dei fatti?
Ecco la ragione delle impossibili definizioni limitanti e limitate per Nina dei lupi, un romanzo che a una prima lettura potrebbe apparire semplice, quasi noioso, se non vi fosse la consapevolezza di cogliere i legami che l’autore – consapevolmente o meno questo non è dato sapersi e in ogni caso non ne cambierebbe la sostanza – ha saputo centellinare attraverso differenti vasi comunicanti fra personaggi, evocazioni, sviluppi narrativi sensoriali, lavoro di essenzialità matura nei lemmi e nel periodare. Nina dei lupi è anche altro, una delicatezza femminile, verrebbe da dire, nel controllo del tema onirico, mentre l’aspetto mitologico è più funzionale che sostanziale, certo con una resa non indifferente per i lettori più esigenti.
Una critica negativa, fra le poche, che si potrebbe muovere a Bertante è di avere ricamato troppo i toni melodrammatici delle scene d’amore, asservendole a richiami sbrigativi di certa cinematografia ad effetto: la complessità generale del romanzo avrebbe richiesto un lavoro più attento, portato invece a compimento nell’intreccio e nella chiara abilità di cogliere anzitempo le rare lentezze del ritmo, peraltro maneggiate con cambi di scena mai forzati.
Abbiamo rivolto a Bertante alcune domande, tentando di provocarlo, seguono le sue risposte.
Bertante, si è parlato di Nina dei lupi anche in termini apocalittici, fil rouge di non pochi romanzi contemporanei italiani, si pensi per esempio a La ragazza di Vajontdi Tullio Avoledo: ossessione artistica di contagio o amplificazione di temi che già aveva manipolato, seppure investigandoli attraverso evocazioni differenti nel tempo e nello spazio, con Al Diavul?
In questi ultimi anni esiste secondo me una sensibilità comune fra gli scrittori riguardo questo tema. Io già due anni fa curai per Agenzia x la raccolta di racconti Voi non ci sarete, che appunto ipotizzava scenari post apocalittici, inserendosi in una vasta letteratura, soprattutto di origine nord americana. Credo che questa necessità di raccontare la fine nasca dalla forte sensazione di crisi che sta vivendo l’Occidente, alla quale è venuta a mancare la consapevolezza della propria identità culturale e del proprio ruolo. Lo smarrimento è motore dell’immaginario apocalittico che per forza di cose diventa condiviso.
Dostoevskij, nel romanzo L’adolescente, scrive: Ogni uomo, chiunque egli sia, conserva un certo ricordo di qualcosa che gli è successo e che egli considera, o è incline a considerare, come fantastico, insolito, fuori dell’ordinario, quasi miracoloso, e potrà trattarsi di un sogno, di un incontro, di una predizione, di un presentimento o di qualcosa del genere.
Quanto il concetto di rassegnata e dolce sconfitta di fronte all’insolitorappresenta il vero humus dell’assordante silenzio interiore di Nina?
Non credo si tratti di rassegnazione, tutt’altro. Nina reagisce. Lei di fronte alla potenza di una natura sconosciuta e ostile non si sottrae al confronto ma scavando nell’immaginario ontologico della nostra razza rielabora un linguaggio antichissimo: il linguaggio magico. In questo passaggio è fondamentale la figura di Diana. Lei è artefice del mito che s’incarna in Nina e nella sua leggenda. Nina dei lupi è un viaggio nella mitopoiesi fondatrice di una nuova civiltà.
Lei vive a Milano e il contatto con la natura plasma l’intera storia di Nina dei lupi, intuizione-espressione dell’autore – specchio esorcizzante inserito in un contesto cittadino e di conseguenza narrativo –, oppure la natura come simbolo di serenità tragica conquistata?
Sono un metropolitano atipico, vivo fuori Milano, nei pressi del Parco del Ticino e sono cresciuto a contatto con la natura in tutte le estati della mia giovinezza, infatti questa esperienza biografica sta alla base di Al Diavul, il mio precedente romanzo. Forse anche per questo motivo guardo alla natura speranzoso, credo che in essa rimanga una remota saggezza che ha che fare con il tutto e il sempre. Saggezza smarrita dalla civiltà dell’uomo plasmata sulla particolarità e l’egoismo.