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Ninna nanna – di Patrizia Belli

Da Trentinowine

Racconto di Patrizia Belli

La neve cadeva a fiocchi grossi e fradici.

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Maria Laura era alla finestra a osservare preoccupata la distesa bianca del prato, oramai della strada non rimaneva alcuna traccia. In poche ore erano caduti almeno trenta centimetri.

Era uno spettacolo stupendo. Il grande manto bianco aveva ricoperto ogni cosa e il gelo dipinto d’argento gli alberi. Il paesaggio pareva immerso in un’ampolla di silenzio. Maria Laura guardò incantata quel miracolo della natura, poi si riscosse e pensò che una neve così pesante avrebbe causato un sacco di guai.

Nel camino il fuoco scoppiettava lanciando scintillanti faville. Era una buona compagnia.

Eleonora, in poltrona, leggeva l’ennesimo manuale di pediatria.

«Non ti servirà a molto.»

Eleonora sbuffò.

«Oddio, mamma, ma perché devi essere sempre così negativa! Non cerco miracoli solo consigli. Sì, sì lo so che tu hai allevato quattro figli ma le cose sono cambiate dai tuoi anni quando cambiavate i neonati con gli stracci….»

«Ciripà. Si chiamavano ciripà. È vero avete più comodità, ma i neonati rimangono neonati e non ti serve un libro per tirar su tuo figlio.»

«Già per te basta l’amore vero? A me no. Da quando sono uscita dall’ospedale, e sono 18 giorni, non ho chiuso occhio. Emanuele ha invertito le lancette dell’orologio, dorme di giorno e piange di notte. Non c’è sera che non si svegli e io lo allatto, lo cambio, lo cullo, gli preparo l’infuso coi fiori della camomilla, ma non serve a niente. E trascuro Lorenzo che torna a casa sempre più tardi, trova la cena da scaldare, una moglie coi capelli in disordine, senza trucco, con le occhiaie e nessuna voglia di dialogare. E da qualche giorno dorme pure sul divano, dice che lo disturba sentirmi alzare per andare dal piccolo. Lui è disturbato! Capisci? E io? Cosa devo dire io? Che giro come una trottola per la casa con il bimbo in braccio? E lui continua a piangere. E al mattino Lorenzo è arrabbiato. Mi incolpa di non saper tenere il piccolo. Mi sbraita che lui deve lavorare, che ha bisogno di dormire, come se non ne avessi bisogno anch’io. Scappa di casa senza colazione. Non so più cosa fare. Davvero non so. Sono così sfinita.»

«Beh ora sei qui. Ci sono io ad aiutarti. Lo tengo con me questa notte così potrai riposare e riprenderti.»

«Lo so mamma e non sai quanto te ne sia grata. Poter dormire è diventato un sogno. sono così stanca che alle volte vorrei….vorrei…»

«Buttarlo dalla finestra?»

«No, quello no o forse un po’. È che farei qualsiasi cosa pur non di non sentirlo piangere. Non capisco perché è così inquieto. Non capisco dove sbaglio.»

Maria Laura si avvicinò alla figlia e le mise un braccio sulle spalle.

«Non sbagli nulla. Sei solo troppo apprensiva. Tesa. È il tuo primo figlio, è normale. Le nonne sono fatte apposta per dare una mano.»

Poi vedendo la figlia così preoccupata cambiò discorso.

«Lorenzo ti ha detto a che ora parte? La neve ha coperto la strada.»

«Ha promesso di arrivare prima di mezzanotte. Lo sa che ci tengo è il primo Natale di noi tre insieme.»

«Quattro.»

«Scusa mamma, intendevo noi come famiglia. Non che tu non faccia parte della famiglia, ma…. Insomma hai capito, vero?»

Eh già – pensò Maria Laura – le mamme sono invisibili. Ci sono sempre e quasi non contano più, certo che ho capito, figlia mia. Ho capito che pensi al futuro e che mi hai già esclusa, ma in fondo è giusto così.

«Non ti sei offesa, vero mamma? È che sono così stanca, ma così stanca che vorrei solo che tu mi raccontassi una storia come facevi quando ero bambina. Vorrei addormentarmi al suono delle tue parole. Vorrei…»

So cosa vorresti – pensò Maria Laura – ci sono passata anch’io. Un bimbo è fatica, apprensione, paura di sbagliare, ma è anche amore allo stato puro. Ce la farai, bimba mia, devi solo lasciarti andare, mettere da parte i timori e goderti questa gioia. Solo così sarà più facile. Lo capirai, ne sono certa.

E con questi pensieri la donna si sedette di fronte alla figlia. Da un cestino raccolse il gomitolo di lana azzurra con cui stava confezionando un paio di babbucce per il nipotino.

«Ti ho mai raccontato la leggenda di Morsia?»

E, senza aspettare risposta, Maria Laura cominciò a raccontare.

“Morsia era una città bella e opulenta.

Costruita sul lieve declivio d’una collina, la città si presentava ai visitatori inondata dai raggi d’un sole dorato. Da mattina a sera risplendeva luminosa nella luce del tramonto, una luce calda capace di addolcire gli spigoli delle case e dei volti, la luce dai fili d’oro che incendia i rosai e che ogni artista vorrebbe catturare perché rende incantevole anche il dipinto più banale.

Narrano le leggende che fu un saggio astrologo a immaginare come la città andasse costruita. In sogno egli vide le rovine di Atlantide, la città perfetta. Giaceva adagiata sul fondo degli abissi. Ancora intatta. La vide con la disposizione delle strade a stella, i porticati volti al sole, le case a cerchio a proteggere le piazze come in un gomitolo, i giardini pensili rigogliosi di fiori.

Al risveglio il saggio ebbe l’accortezza di disegnare la città perfetta prima che la visione svanisse dalla sua memoria e fu così che venne costruita Morsia. La città di sogno.

Chiunque vi entrasse veniva catturato dall’incanto di Morsia e tutti ma proprio tutti non desideravano altro che fermarsi nella città dove la realtà diventava sogno e il sogno realtà.

La città si ingrandì. Nuove case e negozi e strade. Morsia divenne una città ricca e pigra, baciata dagli dei.

Passarono gli anni e la fama di Morsia crebbe. Gente di terre lontane si mise in cammino per raggiungere la città dove i sogni si avverano.

Vennero costruite mura e fossati per proteggere Morsia dall’invasione, ma ogni mattina le vedette dall’alto dei torrioni contavano migliaia di persone in più ai piedi della città felice.

Fu così che il Consiglio dei Saggi, che sino ad allora aveva governato in pace pensando solo a decidere se era meglio un giardino di rose o un terrazzo sospeso di camelie, si trovò ad affrontare la spinosa questione di come impedire che un’orda famelica di gente invadesse la città.

Non avvezzi a decisioni di tale fatta i Consiglieri pensarono di interpellare colui che aveva creato Morsia, il saggio astrologo, ormai centenario.

Ma il vecchio che da tempo aveva smesso di interessarsi alle vicende umane e nemmeno si era accorto della fiumana di gente che premeva alle porte della città, altro non attendeva che la fine. La vita gli aveva regalato più di quanto egli avesse chiesto. Con un sogno era riuscito a realizzare la città perfetta. E per molti anni, ogni notte le stelle in cielo gli avevano svelato i destini degli uomini. Ora era al capolinea. La vecchiaia lo aveva reso cieco e dato che scrutare stelle e costellazioni era per lui l’unico motivo di vita, attendeva sereno la fine.

Non rimase stupito nell’apprendere che tanta gente volesse vivere a Morsia, ma rimase interdetto dinnanzi al rifiuto degli abitanti di dividere la città con altri.

Così disse ai suoi concittadini di accogliere i nuovi venuti, perché tutti hanno diritto ai sogni.

I Saggi del Consiglio gli risposero che non se ne parlava nemmeno, che non c’era posto per tutta quella gente, che aprire le porte di Morsia era fuori questione.

Allora il vecchio, che degli uomini aveva dimestichezza, disse loro di costruire una imponente torre con due braccia ai lati. E disegnò una croce. Assicurò che la croce avrebbe placato la brama dei forestieri. Spiegò che essa è simbolo di forza e potenza, che l’asse verticale indica la terra connessa con il cielo, mentre nel senso inverso simboleggia le radici della vita. Infine indicò l’asse orizzontale e affermò che essa esprime la scala che conduce al cielo. Garantì che la croce avrebbe protetto la città e impressionato i nuovi venuti.

In realtà il vecchio astrologo sapeva che in terre lontane la croce era simbolo di supplizio, strumento per appendere i condannati e esporli alla vista e al ludibrio di tutti. E pensava che vedendo la costruzione i forestieri ne sarebbero rimasti intimoriti e se anche così non fosse stato, sicuramente i tempi per i lavori di edificazione avrebbe alla fin fine condotto alla ragione i riottosi abitanti di Morsia.

Soddisfatti della soluzione i Saggi diedero inizio ai lavori.

Vennero scavate le fondamenta nel punto più alto della collina sopra cui sorgeva la città. Già al terzo giorno si cominciò a vedere la base della torre, il diametro era impressionante, sarebbe stata la più grande croce mai vista.

Ma al quarto giorno gli operai arrivati al cantiere di primo mattino trovarono il basamento della torre franato. Stupiti diedero la colpa all’impasto, troppo debole. Velocemente lo riedificarono, avendo l’accortezza di adoperare materiali più resistenti. Il mattino successivo il muro era nuovamente distrutto e così per giorni e giorni.

Vennero convocati i Saggi e si decise di mettere delle guardie attorno alla scavo. Giorno e notte. Ugualmente al mattino il muro costruito coi materiali più resistenti risultava sbriciolato. Le grosse pietre ridotte a un mucchietto di polveri bianche. E senza che nessuno si fosse avvicinato al cantiere. Un mistero.

I Consiglieri tornarono dal vecchio saggio che nuovamente li pregò di aprire la città ai forestieri, perché era sicuramente un segnale divino che quella croce non volesse svettare in cielo. Ma non ci fu verso di farli ragionare. Il vecchio, che ne aveva abbastanza del loro egoismo, questa volta li cacciò in malo modo.

Se ne andarono borbottando che l’anziano astrologo era diventato pazzo e inutile.

La leggenda non racconta a chi venne l’idea, di certo era un uomo dai sogni malvagi. Fatto sta che cominciò a circolare la convinzione che solo la purezza di un bambino avrebbe potuto sorreggere quella torre. Solo il corpicino di un neonato poteva unire la terra al cielo. Solo l’innocenza di una giovane vita poteva elevarsi sino a toccare le stelle.

In quel mese, a Morsia, erano nati tre bambini. Uno era il quarto figlio di un ricco mercante. L’altro il secondo di un filosofo. E l’ultimo era il primogenito di un falegname.

Come scegliere?

Dopo ore di discussione il Consiglio decise che la soluzione andava affidata al destino. La prima delle tre madri che all’alba del giorno successivo avesse aperto gli scuri di casa sarebbe stata la prescelta.

Il Consiglieri a turno giurarono di non rivelare a nessuno la decisione presa. Ma si sa che l’avidità può più dei giuramenti. E un Consigliere dai sogni talmente ambiziosi che mai si avveravano perché cozzavano contro i sogni d’una moglie fannullona che di notte fantasticava le più futili inutilità e quelli di un figlio mediocre che nel sonno desiderava soltanto balocchi, ebbene quel Consigliere ordì una trama che si sarebbe rivelata fatale.

Furtivamente quella sera il Consigliere si recò dal ricco mercante e gli rivelò lo stratagemma. In cambio si fece promettere così tanti denari da assicurare la sua vecchiaia, quella del figlio e dei discendenti futuri. Ebbe anche la furbizia di ammonire il ricco mercante affinché non avvisasse la moglie, perché – disse – le donne non sanno tenere un segreto.

Poi si diresse alla casa del filosofo. Qui non chiese soldi ma si fece promettere che avrebbe insegnato a suo figlio gli elementi della dialettica. Il Consigliere sapeva quanto contasse saper vendere bene le proprie parole, anche in assenza di grandi pensieri. Così in una sola notte aveva assicurato al suo ragazzo un futuro da benestante e benparlante. E anche al filosofo fece promettere di non rivelare nulla alla moglie.

Di un falegname non aveva bisogno.

Quella notte il mercante prese in disparte la moglie.

«Cara ti vedo stanca. Sono troppe notti che non dormi per accudire l’ultimo nato. Questa notte voglio che tu ti corichi nella stanzetta in cima al tetto. Quella senza finestre, così potrai dormire fino a tarda mattina senza svegliarti. Non ti preoccupare per il piccolo, questa sera la balia rimarrà qui e sarà lei ad accudirlo.»

La donna, sfinita per le molti notti in bianco, si gettò ai piedi del marito per ringraziarlo.

Alla stessa ora nella casa del filosofo, che nonostante la sua professione, o forse proprio per essa, era uomo di poche parole a cui la cattedra aveva insegnato l’arte del comando, informò la moglie che sarebbe rimasto alzato per lavorare su dei tomi di logica aristotelica.

«Stanotte devo preparare una lezione. Mi coricherò domani mattina e sai come mi infastidisca la luce del mattino, per cui ti ordino di tenere tutte le finestre accuratamente chiuse. Non ammetto eccezioni. Devono rimanere tutte serrate, nessuna esclusa. Hai capito?»

La donna, abituata alla severità del consorte, abbassò gli occhi e fece cenno di sì.

In casa del falegname, il fuoco ardeva nel camino. La moglie, una deliziosa mora con occhi profondi, rimestava la zuppa. Il bimbo, un bel neonato con le fossette nelle guance, sgambettava nella culla scolpita dal padre.

Il falegname lo prese e lo alzò in alto. Il piccolo gorgogliò.

«Mettilo giù che così lo vizi.» disse la donna.

«Non è bello il nostro bambino? È il bambino più bello del mondo.»

Con un sorriso la donna si avvicinò al marito per prendere il bimbo e riporlo nella culla. E così facendo lo sfiorò in una timida carezza.

Mangiarono in silenzio grati del cibo che imbandiva la tavola.

Poi la donna si attaccò il piccolo al seno, mentre il padre rifiniva di lima un cavallino in legno che stava fabbricando per il suo bambino.

Alle prime luci dell’alba una sola casa aprì le imposte.

La giovane moglie del falegname si affacciò canticchiando. Aveva fatto l’amore con il suo uomo quella notte, il piccolo si era svegliato solo una volta e lei aveva dormito di un sonno senza sogni, che quando si è così felici è la vita a bruciare i sogni e non il contrario.

Per questo non si spaventò quando vide una delegazione di consiglieri sotto la finestra. E non si turbò quando capì che era da lei che bussavano. Né fece caso alle guardie che li accompagnavano. Andò loro incontro con il sorriso e il suo bambino legato alla schiena come usava fare quando si accingeva alle incombenze domestiche.

Agli inizi non capì. Avevano bisogno del suo bambino? Per costruire una torre? Li guardò stralunata.

«Il mio piccolo non ha compiuto il mese di vita, come può aiutarvi?»

Fecero fatica i consiglieri a spiegarsi, forse per un barlume di decenza. Ma la paura dell’invasione di forestieri che avrebbero sposato le loro donne, guadagnato i loro denari, imposto i loro usi e voluto i loro terreni, beh la paura fu più forte della pietà.

Dissero alla donna che la città aveva bisogno di una croce per tenere lontano gli invasori e che la croce doveva essere edificata sul sacrificio di un innocente, perché quel simbolo si erge solo sul dolore.

Strapparono il bimbo dalle braccia della donna che nel frattempo si era stretta al seno il suo piccolo.

Il neonato, fino ad allora quieto, si mise a strillare.

Un pianto disperato che il padre non faticò a riconoscere. Arrivò di corsa dalla bottega che distava pochi passi.

La scena che gli si presentò lo colpì nelle viscere, sua moglie era inginocchiata e piegata in due come fosse stata frustata e il suo piccolo in braccio a un Consigliere. Si avventò. Una guardia cercò di trattenerlo imprigionandogli le braccia ma l’uomo era forte e brandiva un martello. Stava inchiodando un tavolaccio quando aveva sentito il suo piccolo piangere. Ma la guardia non lo sapeva e sguainò la spada. La lama luccicò nella luce dorata di Morsia e per la prima volta da quando la città fu costruita la mano di un uomo si alzò su un suo simile.

La donna vide la camicia del falegname farsi scarlatta e smise di piangere. Si sollevò in piedi, si spazzolò il vestito e guardando i Consiglieri con l’autorità di una regina, disse:

«Dovete portarmi con voi. Se il mio bambino deve morire, allora moriremo insieme.»

E tese le braccia.

Nessuno riuscì a sostenere quello sguardo e le venne consegnato il piccolo che appena annusato l’odore materno si quietò.

Era l’ora in cui la città si svegliava.

La gente cominciò a uscire dalle case, gli occhi ancora gonfi dal sonno e dai sogni dorati di Morsia. Guardarono più incuriositi che preoccupati quello strano corteo, in cui una giovane fanciulla, bella da lasciare senza fiato, procedeva con passo deciso portando tra le braccia un neonato con delle irresistibili fossette nelle guance.

Perplessi cominciarono a farsi delle domande. Ma i Consiglieri avevano previsto anche questo e per imbonire la folla decine di banditori comparvero all’improvviso spiegando la decisione dei Saggi e il perché un tale gesto – così inusuale a Morsia – era necessario per la salvezza della città.

Non uno si fece avanti a difendere la donna che incedeva pallida e audace come solo una madre che difende il suo cucciolo sa essere.

Solo quando fu dinnanzi allo scavo e all’incavo di pietra che avevano preparato affinché il corpo di un innocente sorreggesse l’immensa croce, solo allora la donna tremò. Si inginocchiò davanti ai Consiglieri e li implorò.

«Prendete me, ma lasciate in vita il mio bambino. Io sono stata una buona figlia e una buona moglie. Se così farete sarò anche una buona madre e il mio scheletro potrà sorreggere la vostra croce. Ma vi prego, vi scongiuro, tenete con voi il mio bimbo. Non macchiatevi di questo delitto. Lui non ha colpe. Ha diritto alla vita. Se avrete pietà del bambino non tutto è perduto per voi e per questa città.»

Era la preghiera di una madre ma ai consiglieri sembrò la profezia di una minaccia.

E la donna con il suo bambino fu sistemata nella nicchia di pietra.

Quando lei capì che il cuore di quella gente era morto e giaceva nel loro petto come in un sarcofago, allora non ebbe occhi che per il suo bambino.

Lo strinse al seno sussurrandogli: «shh…piccolo mio, non aver paura, ti canterò una canzone. E anche quando non avrò più voce saranno i battiti dei nostri cuori a parlare per noi. Shh… piccolo…» e lo ninnava.

Poi per gli abitanti di Morsia tutto fu facile.

La croce fu terminata in un mese. Imponente sembrava puntellare il cielo.

I forestieri che bivaccavano fuori dalle mura della città cominciarono ad andarsene. Ma non era la croce ad allontanarli. Era la melodia di una straziante ninna nanna che ogni notte riempiva l’aria.

Le note si libravano nell’aria struggenti di disperazione e implacabili di amore. Era il canto di una madre da cui chiunque sarebbe stato fiero d’essere nato.

Un canto insopportabile per gli abitanti di Morsia che cercarono di isolare le loro case per non udirlo e si riempirono le orecchie di cera e pregarono affinché smettesse.

Ma il canto non cessava. Al calar della sera la melodia invadeva la città, si insinuava nelle case, nelle piazze deserte, negli spigoli delle vie, nei pertugi bui… e come una spugna imbeveva i sogni.

Nessuno, nemmeno i bambini, riusciva più a sognare.

Gli abitanti di Morsia oramai attendevano la notte con timore. Quando si coricavano il loro respiro rallentava sino a diventare un lieve sibilo e precipitavano in un sonno buio mentre il loro cuore si riempiva di cenere.

Un supplizio insopportabile.

E fu così che nessun bimbo nacque più a Morsia e la città che un tempo elargiva sogni e felicità presto divenne deserta.

Lentamente nelle mura delle case si formarono delle crepe, le statue si sbrecciarono, le fontane si asciugarono, i fiori si rinsecchirono e in poco tempo di Morsia non rimase che polvere.

Solo una immensa croce in cima ad una collina resisteva a testimonianza della città che fu.

Una croce che il tempo non scalfiva.

Nessuno, ma proprio nessuno, si avvicinò più a quella croce. Per molti e molti anni.

Fino a una notte di dicembre in cui una giovane donna salì faticosamente sulla collina. Il freddo era così intenso da screpolare le labbra, ispessire il sangue e ghiacciare le lacrime. E dagli occhi di quella giovane le lacrime scendevano copiose. Aveva perso il suo bambino al quarto mese di gravidanza e nulla chiedeva alla vita se non una nuova vita. Si sedette ai piedi della croce decisa a lasciare che il freddo decidesse per lei.

D’improvviso il cielo si annerì, le stelle si spensero, il tempo si chiuse in un cerchio e tutto diventò suono. Solo suono.

Una dolce ninna nanna abitava il mondo.

Le note risplendevano nell’aria, in una lingua incomprensibile, che per la misteriosa alchimia del cuore la giovane comprese.

Raccontò poi che era il canto di una donna che bisbigliava parole dolci al suo bambino, che lo ammoniva a non odiare coloro che offendono le madri, a non serbar vendetta per coloro che uccidono l’innocenza e gli narrava di lui. Di suo padre con quelle grandi mani dai calli duri che diventano morbide come il burro quando lo teneva tra le braccia o quando le allacciava intorno alla vita di lei. Della sua barba ispida come una grattugia. Della culla di legno acerbo che lui aveva voluto rifinire scolpendo un cuoricino nella testata. Poi gli narrava del sole, di un gatto arruffato, dell’albero di pesche che regalava ombra e frutti, del sapore amaro della liquirizia, della gioia di infilare i piedi nella sabbia e così….così all’infinito.

E lei, quella giovane donna dal seno prosciugato, ascoltava incantata la voce di una madre che stava catturando il mondo in una ninna nanna.

Quando il canto finì e la fanciulla si rialzò ebbe la certezza che il suo ventre avrebbe riaccolto la promessa di amore.

Da allora, per i secoli a venire, le donne che desiderano un figlio o quelle che si interrogano sul mistero dell’amore materno, si ritrovano in una notte di dicembre sotto la croce di una città che non è più e ascoltano rapite una struggente ninna nanna.”

«Mamma è bellissima, ma è vera?»

«Non lo so. Forse sì, forse no. È una leggenda.»

«Mi ha fatto venire i brividi.»

Eleonora si alzò, scostò la tenda alla finestra, osservò pensosa la neve.

«Non credo che Lorenzo ce la farà ad arrivare.»

In quel momento squillò il telefono. La giovane corse a risponde. Tornò dopo pochi istanti.

«Era Lorenzo. È perso nella neve. Dice che si ferma nel primo hotel che trova.»

«Mi spiace. Ci tenevi tanto!»

«Oh mamma, non importa. Davvero non è importante. Avremo tanti Natali da trascorrere insieme. Non ti spiace se allatto Emanuele e vado a dormire? Sono davvero stanca.»

«Non ti preoccupare. Se il piccolo non dorme lo prendo io. Vai, vai tranquilla.»

Maria Laura rassettò la cucina, spense le candele dell’avvento, regolò i termosifoni, sbrigò tutto con l’orecchio teso a sentire se il piccolo piangeva, invece nulla.

Ascoltò meglio e le parve di udire una cantilena. Allora in punta di piedi sbirciò nella camera di sua figlia, e mai mai avrebbe dimenticato l’immagine di suo nipote che guardava incantato la madre mentre lei lo accarezzava cantandogli una dolce ninna nanna. Allora lentamente richiuse l’uscio. Non senza un rapido sorriso.


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