A quasi un anno dalla pubblicazione del libro, ricevo queste note da Nino Iacovella, che ringrazio di cuore.
La liturgia di un ritorno
Compitu re vivi di Sebastiano Aglieco
di Nino Iacovella
In “Compitu re vivi” (Compito dei vivi), ultimo libro di Sebastiano Aglieco, si arriva alla probabile chiusura di un discorso poetico iniziato con “Dolore della casa”. Lo sviluppo, la sequenza e naturale conseguenza dei due libri è desumibile in una parte di testo estrapolata dalla sezione Dominio dell’acqua del “Dolore della casa”:
Questa la condanna
dei vivi: tradire i tuoi secondi
mangiare il pane dei morti nella tua
bocca incuneata in me senza il timore
della luce, senza tepore nelle mani.
La “condanna dei vivi” o “compito dei vivi” è il passaggio del testimone, così come simbolicamente nel trapasso: il pane dei morti viene mangiato da una bocca che sovrappone la carne del figlio all’anima della madre.
Nella poesia di “Compitu re vivi” troviamo versi continuativi del discorso: “proteggi il pane dei morti / caldo ancora per promessa.” E’ il trait d’union della vicenda di un poeta che torna a casa per riaprire vecchie ferite d’infanzia, per cauterizzarle definitivamente. A voler trarre un’immagine unica e significativa di “Compitu re vivi” potremmo dire della “purezza originaria”: un bambino silenzioso immerso in un mondo al confine tra fantasmagorico e reale.
La poesia, per l’autore, è qui il “compito dei vivi”, il proprio “compito da vivo”. Un modo per costruire, attraverso una parola alta ed evocativa, l’argine definitivo al passato che, con il tempo, scivola sempre più nell’oblio. Per questo si ritorna in quel bambino che, con un ramoscello spezzato, traccia il disegno sentimentale di una terra mitopoietica ed arcaica. È un bambino che sente ed osserva tutto, risparmiando le parole che verranno, verranno molto tempo dopo, sulla carta, con la poesia.
Ha una valenza esemplare la “prima scena” della sezione Vini e cuntu (Vene e racconto) dal titolo Vattiatu (Battezzato):
“L’ùgghi ca cùsunu occhi e ucca
na manu nnica vicìna o lettu ranni
nun parràunu
nun si taljàunu
aspittàunu na luci
l’ura o barcùni ca scuràva
e poi si ni jva tutt’u tempu.
Dd’acqua a riminàri, dop’a ggrazia
pigghia ’n fazzulèttu p’asciucàri u sancu
cummògghia u pani re motti
càuru ancuòra pi prumìssa.
Battezzato
Gli aghi che cuciono occhi e bocca / la mano del bambino vicina al
letto degli sposi / non parlavano / non si guardavano / in attesa di
una luce / l’ora che oscurava sul balcone / e poi finiva tutto il tempo.
// Quell’acqua devi rimestare, dopo la grazia / prendi un fazzoletto
per asciugare il sangue / proteggi il pane dei morti / caldo ancora per
promessa.
Il testo raccoglie un’immagine tra sogno e ricordo, densa di simboli iniziatori e sacri: il battesimo, la nascita, il sangue e la morte. L’immagine dei genitori accostata al loro letto da sposi: il talamo nuziale, lo snodo tra carnalità e sacralità insite nella figura paterna e materna.
Questo il nucleo della poetica di Aglieco che, per non lasciare alcuno scarto di significato tra eventi e narrazione, usa l’arma linguistica più potente a sua disposizione: la lingua madre. Un dialetto siciliano che apre a suoni aspri e cupi: nella prevalenza della consonante “u”, che determina la maggiore contrazione possibile dei muscoli facciali tra i suoni vocalici, come fossero voci appropriate per maschere oniriche.
Nell’epigrafe della prima silloge risalta: “Sono stato in qualcosa che / non sono più, qualcuno / ha sporcato / la mia infanzia.”
Il poeta qui ci offre una sorta di “j’accuse”. C’è stato un passaggio forzato. Qualcosa che ha interrotto precocemente l’idillio dell’infanzia.
L’autore, con la coerenza di una narrazione poetica che non intende esplicitare la natura di questa perdita, affronta la “ricognizione di quel dolore” come passaggio obbligato per una sublimazione definitiva.
Nella seconda sezione Jancu e Russu si staglia severa la Fjùra ri patri ca manu isàta:
Chisti su i fatti:
lassa focu e cazziàti
rimìnunu ancuòra u tempu
pi fatti stari, pi puliziàri
u ‘ngrasciu.
Vini fitti, rutti
a m’prescia, a rivèssa
stùmmichi chini, bbotti
n’ùmmira passa, ti cecca.
A tutti, a tutti
tranni a mmia taljàsti.
Immagine di un padre con la mano alzata.
Questi i fatti: / lascia fuoco e rimproveri / rimestano ancora il tempo / per farti rimanere, per pulire / lo sporco. / Vene fitte, rotte / in fretta, al contrario / stomaci pieni, botti / un’ombra passa, ti cerca. // Tutti, tutti / tranne me guardasti.
Nella sezione Vini e cuntu prevalgono immagini di realismo magico, nella percezione di un bambino che scopre il mondo dal suo mondo (soprattutto in testi quali A Cciuriddìa, Muru ri plastica, Curtìgghiu).
Poi le feste di paese, le figure sacre, le icone dei santi e le figure femminili protettive e matriarcali che fanno da sfondo ad una Sicilia che ha i contorni sempre più sbiaditi nel ricordo.
Ora ti viru
ti prisintàsti nno sonnu ravànti a
casa, i rrosi spaccati ca c’era luci
accicàta ri maju
a gonna stritta, dop’ a mmia.
I patri su ‘nginucchiuni, piddunàti.
na ‘nfurnàta ri palòri muti
si fèmmunu i sticchi re sciùri
l’àbbìri sunu ‘ncantisimàti, rispicchiati.
Ora ti vedo / sei apparsa nel ricordo davanti / casa, le rose spaccate nella luce / fortissima di maggio / la gonna già stretta, dopo il primo figlio. // I padri assolti, inginocchiati. / a moltitudini le parole tacciono / si ferma il sesso dei fiori / gli alberi sono immobili, specchiati.
Poi la poesia volge al tempo reale. È il poeta diventato uomo che parla. La lingua e lo sguardo cambiano attraverso il cruciale passaggio della morte della madre. In esergo del testo eponimo Compitu re vivi: “O figlio, figlio, guarda, tu che possiedi le parole, in questa luce disadorna del meriggio; puoi dire per sempre o negare l’evidenza. Scrivi di questa visione di me, del mondo.”
Aglieco parlerà dall’esilio voluto di una nuova terra. Lo farà con il tratto umile e consapevole di chi è dedito alle imprese del vivere: il gioire, da maestro, dei bambini che crescono dalle sue parole, all’interno dei suoi gesti protettivi, alla poesia che diventa atto, azione, l’abbraccio.
Leggerete nel mio quaderno
un titolo provvisorio
e chiederete ancora di me
della voce di un maestro
che vi ama come la prima volta.
Voi passerete in me, nel mondo
e io resterò in questa terra natìa.
Non ho più bambini in me
li lascio con i miei piccoli doni
un quaderno e una penna stilografica
poche parole custodite come una vittoria.
Saranno nella forza della vita
nella resa della mia voce.
Perdonate
le parole non cambiano il mondo
le parole si strappano nella corsa
attendono la calma per apparire
agli occhi, attendono i Dormienti
il bacio che li sceglierà alla vita.
Andate verso il gesto che vi ha
battezzati, tornate indietro nel
seme, trapassate il mondo
le trame del tempo e del giudizio
e perdonate se vi ho insegnato il perdono
anche quando l’amore era
un frutto marcio.
La scrittura rimane sempre alta. L’armonia del testo, la bellezza, la fragilità della propria confessione di umanità così universale, che con naturalezza ci arriva, perché ci appartiene.
Credo
Credo alla richiesta di un nome
affisso ai muri come un vessillo
una spada che ferisce il tempo della
consunzione, tre sillabe pronunciate
all’altezza del petto
aperte come i figli quando muoiono.
Credo alla sentenza del fiore
succhiato dalle bocche
al grido dell’Occidente nelle Leggi.
Credo a una piccola luce custodita nelle cose
alla litania degli umiliati
contro le porte della Storia.
Credo alle parole che conservano il il loro senso
alla nostra piccola morte quotidiana
prima della grande morte.
Morire in questo tempo, umili, nemici
con le mani in faccia prima del bacio
con la morte eretta senza disonore.
Credo ad un quaderno
a un maestro che mostra la gola.
Guarda, da questa altezza
la terra spaccata
gli uomini come piccole bocche
che vangano la terra
guarda come piangono i mostri
come i fiori si sono sottratti alle corolle
guarda come i bambini retrocedono
nelle tue braccia.
Nell’ora del vespro e del tramonto
la carne diventa ombra
le ferite si sottraggono alla voce
ogni canzone proclama la sua umile vittoria.