Niños triqui. Difficile quasi da pronunciare, se non fosse per la parola niños, che richiama la fraterna lingua spagnola, credo che sarebbe ancora più complicato dare un volto e un luogo a questi bambini. La volontà di scrivere queste righe nasce da un “viaggio” diverso, se così di può chiamare. Siamo nello stato di Oaxaca, in una delle parti più calde e caratteristiche di un Messico che, nonostante una vicinanza importante con gli Stati Uniti, porta con sé usanze e culture forti e indipendenti. Non avendo ancora avuto la possibilità di raggiungere quella parte di mondo, il viaggio di cui parlo si snoda tra conversazioni con abitanti di Oaxaca, documentari e articoli. La storia dei niños triqui è una di quelle vere, autentiche, che senza pretese disegnano una parte di mondo diversa. È una storia di pallacanestro e scarpe da ginnastica.
Sergio Zuñiga è l’allenatore di una squadra di basket di bambini indigeni che dopo tre anni di allenamento è stata chiamata per gareggiare a Orlando. Si tratta della prima competizione internazionale per bambini che si allenano in campi improvvisati in un rettangolo di cemento e che vivono nella loro comunità indigena. Finalmente arrivano negli Stati Uniti, patria dei grandi cestisti, delle grandi competizioni, del sogno più o meno nascosto di ogni bambino che inizia a maneggiare la palla arancione. La maggior parte dei niños triqui non è mai uscita dalla città, Santa Cruz Rio Venado, e nessuno di loro ha mai visto un aeroporto né è mai salito su un aereo. Mentre si preparano alla partenza, uno dei ragazzi, Quirino Merino è timido, fatica a parlare davanti alle telecamere, altro oggetto sconosciuto, riesce a sussurrare qualche insicura frase in spagnolo che non è la sua prima lingua dato che queste popolazioni hanno ne hanno una autoctona. È contento di partire, anche se “si dice che i ragazzi americani siano più bravi e più alti”.
I triqui iniziano il loro viaggio, da Santa Cruz Rio Venado alla capitale Oaxaca caricati in vecchie e rumorose jeep. Prenderanno poi un autobus notturno che percorrerà 460 chilometri fino a Città del Messico da cui prenderanno il primo volo per la vicina, almeno geograficamente, Florida. Mentre l’aereo decolla c’è una grande emozione che li ravviva, quella delle nuove esperienze. È la prima volta in volo e molti non riescono a spiegarsi come sia possibile che quelle ali si stacchino da terra.
Le prime partite nel suolo statunitense non sono degne delle performance dei triqui, c’è qualcosa che non torna. Questi niños si sono sempre allenati, hanno vinto, perso, difeso e attaccato giocando scalzi. L’allenatore Sergio spiega che non si sentono a loro agio con le scarpe da ginnastica, non riescono a saltare, a difendere, hanno paura di cadere ma allo stesso tempo è proibito dall’organizzazione americana giocare senza scarpe. Non sentono la libertà di potersi muovere così come hanno sempre fatto, nella terra calda del loro Messico, imparando a sentire il movimento e a gestire il caldo e gli sforzi rimanendo scalzi. Dopo diverse richieste da parte dell’allenatore triqui, il presidente del torneo americano acconsente a che i triqui giochino senza scarpe. Alla notizia gli occhi dei bambini si risvegliano e si diffonde una gioia incontenibile, sono felici perché possono giocare senza scarpe, perché possono farlo come hanno imparato, “perché con le scarpe da ginnastica rischiamo di farci male”. La partita successiva racconta un’altra storia, bambini scattanti, liberi, che se la giocano alla pari dei bambini statunitensi.
I niños triqui non hanno vinto il torneo e tornano a casa. È comunque stata una grande esperienza e una grande vittoria, hanno conosciuto l’aereo, un nuovo Paese e hanno fatto conoscere a spettatori increduli che si può essere scalzi per scelta.
È la forza con la quale cresce la diversità, condita da abitudini di luoghi distanti geograficamente e culturalmente, che deve essere mantenuta come il valore più importante che possediamo. La felicità è avere un paio di scarpe da ginnastica nuove o poter giocare senza. È diversa, senza la necessità di dover stabilire quale sia migliore.
Di Guendalina Anzolin.