Bologna, Covo Club.
Un post sulla pagina Facebook del Covo recita: “L’ultima volta è stato uno dei migliori concerti del Covo Club!”, frase seguita da una versione live di “Fever Dreaming”. Questo posto ha una lunghissima esperienza live alle spalle e ricordo Efrim Menuck confidare che si trattava di una delle due venue dove suonava più volentieri quando passava in Italia (l’altro era l’Unwound di Padova), quindi sono particolarmente contento di potermi vedere qui un gruppo che merita una degna cornice per i suoi concerti. Entriamo nel poco illuminato locale passando prima dalla dance hall e poi dal corridoio adiacente all’anticamera della sala concerti. Diamo un occhiata alla distro, posta di fronte al banco dove prendere da bere, che contiene quasi tutti gli album in lp e cd e 4-5 tipologie di magliette.
In orario inizia GIVDA: la “u” storpiata e il nome in maiuscolo sono forse un tributo ai CHVRCHES? L’elettronica c’è. Questo progetto solista si basa su sintetizzatori, sequencer e drum machine e definisce il uso genere “kraut techno minimal synth soundtrack”, inseribile in quel contesto elettronico italiano sempre più ampio che in quest’ultimo anno ha fatto così tanto parlare di sé. Il musicista fiorentino si muove sapiente sopra la sua postazione, seguendo il ritmo, e convince noi a fare altrettanto. Qualcuno balla, altri ascoltano ma di sicuro il concerto ipnotizza. Nonostante l’idea sia puramente elettronica, i suoni scelti ricercano atmosfere rock, anche di vago richiamo sperimentale, e creano un dialogante contrasto con il duo di Los Angeles che, invece, spinge il noise rock sugli strumenti. A tratti ricorda il Virtual Audio Project raccolto nelle famose compilation del ’95 dalla Cybertracks Records, con la dovuta cautela, ovvio. Fatto sta che per trenta minuti veniamo accolti da un ottimo set, che ci slega i sensi in attesa di essere soddisfatti del tutto grazie ai No Age.
Dopo un’altra mezz’ora di pausa, durante la quale possiamo scegliere fra ben due banconi dove rifornirci, rientriamo nella lunga sala da concerti, mentre i No Age sono sul palco a sistemare la strumentazione. Il duo si mette a suo agio su chitarra e batteria e, dopo un breve saluto di presentazione, inizia a darci dentro. L’impatto è forte, deciso, si sentono le casse portare a un volume notevole il rock rumoroso delle chitarre di Randy Randall e mi viene da sorridere, visto che il suono è proprio come speravo. Stasera presentano il loro ultimo lavoro, An Object, uscito nientepopodimeno che sulla leggendaria Sub Pop, con la quale il gruppo coltiva una fertile relazione. Proprio da quest’ultimo disco parte la scaletta, che comincia con “Circling With Dizzy”, seguita da “Commerce, Comment, Commence”. Mentre la prima fa saltare, la seconda è più una pausa prima della valanga scatenante composta ancora da pezzi dell’ultimo An Object come “C’mon Stimmung” e “Lock Box”.
Il gruppo non suona solo il suo ultimo lavoro, infatti conclude la prima parte del concerto, sempre sulla scia lasciata dal cataclisma sonico appena realizzato, da tre brani tratti da Nouns (Sub Pop, 2008), il singolo Glitter (Sub Pop, 2010) e dal primo Weirdo Rippers (Fa tCat Records, 2007): rispettivamente, “Teen Creeps”, “Glitter” e la bellissima “Every Artist Needs A Tragedy”. Il pubblico sembra divertirsi molto e segue il concerto dando il via a un amichevole pogo. C’è chi balla come chi si gode la serata in solitario facendo scuotere la testa, c’è addirittura chi fa crowd surfing e l’atmosfera è stupenda, le vibrazioni investono potenti ed esaltano. I No Age dimostrano di essere all’altezza di quel post su Facebook, anche a livello visivo. Sono ottimi musicisti e sanno come si tiene un palco: per un paio di pezzi Dean Allen Spunt abbandona la batteria e si apposta sopra un alto contenitore per dedicarsi al basso, giocando con Randall a un divertente scambio di note, che va a costituire “No Ground”, “No Age Generator” e “An Impression”, tutti brani di An Object appositamente composti senza batteria. Quasi ogni canzone viene inframezzata da corti intro degni degli Animal Collective, e una sorpresa ci attende come bis. Senza neanche uscire di scena, la band propone subito una rivisitazione, nel suo inconfondibile stile, di “Six Pack” del colosso hardcore californiano Black Flag, e la festa ha il suo meritato gran finale. Personalmente ho amato questa rielaborazione della celebre canzone punk, che inaspettata è stata proposta in modo originale. Quando penso sia giunto il termine, un’altra carrellata di pezzi (tra cui quelli che completano la tracklist dell’ultimo lavoro) arriva gaudente a noi, che a nostra volta apprezziamo. Il concerto finisce, questa volta per davvero, proprio con quella canzone linkata sempre in quel famoso post: quando “Feaver Dreaming” parte, noi febbrilmente sogniamo per l’ultima volta.
Grazie a Carlotta Luppi per le foto.
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