Ma non sono divinità cornute, zampe caprine e zoccolo fesso.
Un sudario di polveri sottili, una fuliggine nera che si posa sui pensieri, sui ricordi, avariandoli.
È un'angoscia emozionale che, un respiro dopo l'altro, strangola l'anima.
I miei demoni sono una sindrome, un morbo; e non parlo in senso figurato: sono una proliferazione maligna, un cancro che si ciba del mio corpo interno, corrompendo le cellule, instaurando nuovi tessuti.
Spine che si allungano dal cuore, aghi e rostri uncinati che crescono nei muscoli, squarciano le membrane; ciottoli acuminati che rotolano nelle cavità e lungo i canali.
Quando racconto del portale, del varco infernale che si è aperto dentro me, le persone sorridono, plaudendo le mie abilità di narratore.
Le loro menti da pubblico pagante non sono in grado di concepire l'orrore.
Non capiscono che sono serio.
Non si tratta di allucinazioni, o malattia mentale.
Scrivere è la mia salvezza.
E non perché sia bravo o perché mi piaccia; ma perché scrivere è l'unico modo per liberarmi dai demoni.
Strapparli dalla carne, come un antiparassitario.
E quando sono lì, vincolati sulla carta, immobilizzati con catene d'inchiostro e chiodi fermi di punteggiatura, ingabbiati nei personaggi di mia invenzione, allora sono alla mia mercé.
E di colpo il demone sono io.
Non saprei come chiamarlo: è un cerchio di parole, un uroboro che si morde la coda; è un carosello, una giostra di mani che si disegnano l'un l'altra.
Cosa sono io adesso?
Penna scrivente o carta stampata?
I demoni sono verbi, aggettivi. Sussurri tra le righe.
Febbre. Contrazioni pupillari.
Nel silenzio delle parole scritte, mi ripeto come un'eco.