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No il biogas nel mio giardino

Creato il 18 giugno 2012 da Lucia Navone @lucia_navone

Il Far West all’italiana quando si parla di regole e autorizzazioni per gli impianti a biogas

No il biogas nel mio giardino

Cosa ci fanno quattrocento persone stipate in una ex-bocciofila di un paese della bassa bolognese in un’afosa serata estiva? Saranno lì per la solita sagra penserete. Macché, sono lì attente per ascoltare una raffica di interventi che parlano di biogas, di biomasse, di energie rinnovabili più o meno sostenibili, di procedure amministrative, di piani energetici ecc. ecc.

E’ questa una delle cronache dei tanti movimenti “no biogas” che si possono leggere on line e che non riguardano più solo pochi esempi.

Per il 2012 è prevista infatti la realizzazione di mille impianti alimentati a biogas (gli scarti delle deiezioni degli allevamenti) che dovranno sorgere in Italia.

Gli impianti nel 2000 erano dieci, passati a 591 del 2011 per arrivare agli oltre mille previsti nel 2012, soprattutto nel Nord Italia

 

REGIONE N. IMPIANTI

Val d’Aosta 1

Piemonte 72

Lombardia 210

Trentino Alto Adige 33

Friuli Venezia Giulia 17

Veneto 78 78

Emilia Romagna 63

Toscana 8

Marche 6

Umbria 8

Lazio 4

Abruzzi e Molise 3

Campania 3

Basilicata 3

A lanciare l’allarme è Carlo Petrini, presidente di Slow Food.

Il nuovo decreto sulle energie rinnovabili che entrerà in vigore nel 2013 abbasserà gli incentivi al livello di quelli europei. Resteranno comunque interessanti per cui si può prevedere che la corsa al biogas rallenterà ma non si fermerà. Si tratta perlopiù di impianti di grandi dimensioni, di poco inferiori ad 1 MW di potenza, la dimensione massima per godere degli incentivi statali. Ognuno di questi richiede un investimento di circa 4 milioni di euro, ammortizzabili in 3 o 4 anni che poi darà una rendita netta annua di un milione all’anno. E’ certamente una iniziativa interessante per chi fa sempre più fatica a vivere con l’agricoltura; ma anche per chi di agricoltura non si è mai occupato (Carlo Petrini, Presidente di Slow Food)

Scrive Petrini: “visti i prezzi che spunta l’energia, è diventato molto conveniente fare impianti grandi, da parte di consorzi (non sempre riconducibili ad agricoltori) che hanno lo scopo principale di speculare sulla sua produzione”. La diffusione è anche favorita da procedure di autorizzazione semplificate che, secondo Petrini: “con un iter molto veloce che i cittadini apprendono quando è già stato approvato dalla conferenza dei servizi. L’assenza di norme più definite e restrittive e la discrezionalità delle Regioni non abbastanza sfruttata, fanno sì che si autorizzino impianti a fini speculativi: costruiti troppo vicini alle abitazioni o in siti sbagliati, che pongono seri problemi di sostenibilità e mettono in discussione la buona produzione agricola”, 

Nel frattempo hanno cominciato a manifestarsi i primi inconvenienti originati da questi impianti, oltre alle emissioni maleodoranti e al traffico stradale indotto.

Aspetti che hanno messo in allarme la popolazione e i “no biogas” stanno ormai crescendo in tutta l’Italia.

Uno fra tutti, dove sono coinvolti personaggi politici e manager, è quello di Capalbio. Solo qualche giorno fa c’è stata un’incursione da parte dei “no biogas” locali per tagliare 14 dei 34 “silobag” che contenevano il raccolto e che oggi sono abbandonati e destinati a marcire. Il tutto per un contenzioso che va avanti da mesi, nel miglior stile Guelfo Ghibellino toscano. Coinvolte, le famiglie dei marchesi Resta Pallavicino e di Carlo Nuzzi Negri ex ad della Pirelli RE (da anni impegnata sul fronte delle energie pulite nda) e Furio Colombo, senatore del PD che insieme al titolare di uno stabilimento balneare, un ristoratore romano e una delle poche famiglie ancora dedite all’agricoltura, rivendicano il diritto alla sopravvivenza del turismo e della produzione agricola.

Quando si parla di biogas quindi gli argomenti non mancano. Da una parte Petrini con i rischi per la nostra catena alimentare. “Un mais che non si mangia può ricorrere ad un uso dissennato di chimica, fertilizzanti, e antiparassitari, inquina e mina la fertilità oltre a consumare uno sproposito d’acqua. Per un megawatt si devono sacrificare almeno300 ettari”, scrive il presidente di Slow Food.

Dall’altra la tutela del territorio come ad esempio nella zona di Capalbio a pochi passi dal lago di Burano, zona umida tra le più importanti d’Europa.

In mezzo, i cittadini che spesso si trovano a fare i conti con la puzza ma soprattutto con impianti già autorizzati.

E’ il caso di due impianti, uno a biomasse e l’altro a biogas, in provincia di Fano nelle Marche. Il Comune ha dato il via libera e ora i Comitati cittadini si sono scatenati per impedirne la costruzione.

Del resto bisogna tenere conto che un impianto da meno di 1MW potrebbe portare, in media, nelle casse del Comune più di un milione di euro. Un piatto ricco dove la soluzione, si dice, è quella ecologica. Spesso però i progetti non sono verificati, sono imposti dall’alto, con procedure poco trasparenti che consentono a società dalle dubbie provenienze (spesso “scatole cinesi”) di diventare operatori agro energetici senza possedere terreni ma solo prendendoli in affitto da agricoltori. Le offerte, naturalmente, sono irrifiutabili. Per quale motivo un contadino in crisi non dovrebbe accettare un pagamento cash e smettere di spaccarsi la schiena su un campo?  E’ la solita terza via all’italiana ma perfavore, non mettiamoci di mezzo l’ecologia.

 


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