È trascorso appena un mese e mezzo da quando, in un dibattito televisivo, Angela Merkel ha fatto piangere una bambina palestinese spiegandole, con ruvida schiettezza, che la Germania non può permettersi di accogliere tutte le persone che vorrebbero entrarvi. La cancelliera, che aveva appena chiuso la scottante pratica della crisi greca imponendo un nuovo memorandum punitivo ad Atene, si è prontamente attirata l’appellativo di donna senza cuore, ma anche quello di politico onesto, dal momento che avrebbe dimostrato di non voler edulcorare, se non con un carezza consolatoria, una sgradevole verità.
Oggi, invece, la Merkel apre le frontiere tedesche a tutti i richiedenti asilo siriani, senza alcun limite, ed è magnificata dall’opinione pubblica internazionale come un faro di generosità nel desolante panorama di grettezza delle altre nazioni europee.
Evidentemente qualcosa non torna. L’Angela Merkel che accoglie i profughi in fuga dalla Siria perché «siamo un Paese sano e possiamo farlo», è la stessa donna di pochi mesi or sono, la stessa che ammetteva sconsolata di non poter «dire a tutti di venire in Germania, altrimenti non ce la faremmo», la stessa che negava il taglio del debito alla Grecia perché «abbiamo già dato prova di grande solidarietà».
Il presupposto per non lasciarsi ingannare dall’improvviso ritratto osannante della leader del centrodestra tedesco è ricondurre – come sempre – ogni decisione alla mera politica, mettendo da parte i facili entusiasmi dettati dalle suggestioni del momento. I media hanno, infatti, acquisito questa deprecabile tendenza a semplificare gli eventi, a suscitare emozioni invece che riflessioni, a propinare una rimasticatura dei fatti più comoda da digerire, cosicché le notizie non sono altro che uno stereotipo della realtà.
Ed è nel nuovo terreno dell’emotività da social network che politici raffinati come Angela Merkel preparano la loro strategia, che è sempre rivolta da un lato agli interessi del proprio Paese (cosa che – bisogna riconoscerglielo – la Merkel fa benissimo), ma dall’altro – molto banalmente – alle prossime elezioni. In tal senso, il cambiamento di rotta in materia di immigrazione impresso dalla cancelliera è di una tale portata che sarebbe colpevolmente ingenuo sottovalutarne tutte le implicazioni, compresi i cinici calcoli elettorali. La vulgata di una Merkel tramutatasi in una madre premurosa di tutto il popolo di profughi siriani, insomma, non convince fino in fondo.
Intanto, perché proprio i siriani e non, ad esempio, gli eritrei, che secondo le statistiche sono il secondo gruppo di profughi più numeroso? Anche loro, d’altronde, avrebbero diritto a ricevere asilo in Europa. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, in Eritrea, definita la Corea del Nord africana, vengono regolarmente perpetrate violazioni ai diritti umani. Stiamo parlando di uno Stato totalitario, che, agitando come spauracchio una guerra sempre incombente con l’Etiopia, da cui l’Eritrea si è resa indipendente nel 1993, obbliga tutti i suoi cittadini maschi a una leva militare dalla durata indefinita.
Il fatto che nessuno parli dell’Eritrea, se non con poche eccezioni (come questo meritevole approfondimento dell’inglese Guardian) è probabilmente dovuto all’impermeabilità della piccola nazione del Corno d’Africa, la più pericolosa al mondo per i giornalisti. Nel rapporto dell’Onu vengono descritte orribili torture inflitte non solo ai dissidenti ma anche ai giovani costretti al servizio militare, come scosse elettriche e abusi sessuali.
Ogni mese circa 5mila eritrei fuggono dal Paese per sfuggire alla leva e si dirigono in Europa attraverso l’itinerario più rischioso, quello che passa dai due Sudan – nel pieno di guerre e conflitti etnici – e che porta alla Libia delle milizie contrapposte e dell’Isis, e infine all’incubo di una traversata nel Mediterraneo.
Perché, dunque, accogliere i siriani e non gli eritrei o gli afgani? Un alto funzionario della polizia italiana alla frontiera del Brennero si è lamentato con l’Espresso del comportamento dei colleghi austriaci, che rispediscono indietro, in maniera selettiva, gli eritrei lasciando entrare solo i siriani. Ci sono forse profughi più uguali degli altri?
La risposta è sì. A differenza degli eritrei, spesso ragazzi sradicati e con un passato di sofferenza, i profughi siriani, prima dello scoppio della guerra civile, rappresentavano l’élite economica del loro Paese. Il Sole 24 Ore del 2 settembre precisa che il 39% dei profughi siriani è laureato (medici, ingegneri, tecnici) e il 44% di loro ha un diploma. L’Espresso racconta il caso di Mohanad Jammo, quarantaduenne medico di Aleppo, che, sopravvissuto con la famiglia al naufragio dell’11 ottobre 2013, all’inizio del 2015 ha trovato lavoro in un ospedale in Germania. Il Wall Street Journal scrive, invece, di Mohamad Simo, ingegnere informatico di Aleppo che ora vive in Svezia.
La testata americana The Nation, infine, presenta la storia del ventiseienne Abdou, proveniente da una città vicina a Damasco, la cui famiglia possedeva una farmacia in Siria: dopo l’inizio del conflitto, Abdou è prima emigrato in Egitto, a Ismailiya, dove ha cominciato a lavorare in una farmacia, ma poi, non vedendo un futuro davanti a sé, ha tentato di ottenere un visto per gli Usa e gli Emirati Arabi. Le sue richieste sono state respinte, così Abdou ha preso la via, a molti fatale, del mare. Ora vive col fratello, che lo ha raggiunto, in un appartamento a Oslo, dove, in cambio di lezioni di norvegese per proseguire gli studi specialistici in farmacia, riceve un assegno di circa mille dollari al mese dal governo.
I profughi siriani sono dunque, per lo più, persone appartenenti alla classe media e con un’istruzione elevata. D’altronde, se così non fosse, difficilmente si sarebbero potuti permettere il costoso viaggio per l’Europa, che in certi casi richiede cifre non lontane dai 10mila euro per pagare i trafficanti di uomini. Tuttavia, solo il 2% dei siriani è riuscito a fuggire in Europa, circa centomila persone. Ben 5 milioni, i più poveri e bisognosi, sono invece ammassati nei campi profughi dei Paesi confinanti: Turchia, Giordania, Libano.
Angela Merkel ha perciò sì aperto le porte ai profughi siriani, ma a patto che abbiano il denaro per arrivare in Europa. Inoltre, la Germania accoglie tutti i siriani, ma a patto che riescano ad arrivarci vivi, e se nel tragitto annegano, pazienza.
Perché questa è la vera ipocrisia, non solo tedesca, ma europea: permettere che l’unico modo che i profughi hanno per far richiesta d’asilo sia quello di rischiare la vita in mare. Se davvero le coscienze della Germania e dell’Europa fossero state smosse dalla foto di un bambino morto sulle coste turche, avremmo messo in piedi un sistema di trasferimento legale e sicuro per tutti che coloro che ne hanno diritto. Concederemmo a chi scappa da una guerra di recarsi in una qualsiasi ambasciata europea nel mondo e di ottenere un salvacondotto per il vecchio continente. Niente scafisti, niente naufragi, niente morti. Sarebbe sufficiente un normale biglietto aereo o navale.
La realtà, invece, come al solito velata dagli elogi di una stampa mediocre, è che nessun governo vuole davvero i profughi nel proprio Paese (anzi, la democraticissima Unione Europea foraggia con milioni di euro il dittatore eritreo Afewerki), e – se qualcuno li vuole, come la Germania – allora preferisce sceglierli. Secondo Stephan Sievert, autore di una ricerca per l’Istituto per la popolazione e lo sviluppo di Berlino, se il tasso di fertilità in Germania rimarrà dell’1,4 figli per donna, com’è ora, per il 2060 la popolazione tedesca sarà scesa di circa 15 milioni. Non solo: la Germania rischia seriamente di compromettere la propria potenza economica se entro il 2030 la forza lavoro non si manterrà stabile. Le alternative, secondo Sievert, sono semplici: «Più figli oppure più immigrazione».
Nella commozione suscitata dall’emergenza dei profughi siriani, Angela Merkel ha quindi intravisto una ghiotta opportunità: accalappiarsi migliaia di lavoratori stranieri qualificati e più facili da integrare, così da tamponare le esigenze economiche e demografiche di lungo termine della Germania, e al contempo restaurare la propria immagine e quella del Paese, uscite entrambe ammaccate dalla cinica gestione della crisi greca.
Jacopo Di Miceli @twitTagli