Tutti sappiamo che il marketing e la pubblicità sono l’obiettivo primario delle grandi aziende – si parla solo di dimensioni – presenti in tutto il mondo, tanto che la produzione di beni materiali diventa solo un accessorio. Com’è possibile, allora, investire tanto denaro in quel settore? Togliendone altrettanto a quello della produzione fisica delle cose che portano il marchio, vero oggetto del desiderio del consumatore assuefatto ai messaggi che riceve. Ecco allora che si cerca la manodopera a bassissimo costo in paesi poveri o in via di sviluppo, dove il rispetto dei diritti umani è un’utopia e quelli sindacali non sono mai stati partoriti. Il potere che le multinazionali esercitano per permettersi tutto ciò deriva dalla loro indifferenza per chi produce e per come sono prodotte le loro merci, rispettando la sola legge dell’offerta migliore. Tra le conseguenze, la riduzione dei posti di lavoro nel proprio paese e gli accordi coi governi più poveri, che hanno magari creduto di aiutare il proprio paese gettandosi invece in un circolo vizioso infernale. Se la società che produce materialmente le scarpe che dovrà rivendere alla Nike, o le magliette che comprerà la Tommy Hilfiger, non garantisce un prezzo abbastanza vantaggioso, chi ci rimette sono i lavoratori: i loro superiori, infatti, non possono perdere un cliente tanto importante. No logo riporta interviste e testimonianze di questo scempio, ma non solo: racconta dell’invasività sempre maggiore dei loghi nei luoghi pubblici, nelle manifestazioni cosiddette culturali ma in realtà appendici promozionali; racconta anche dei tentativi per contrastare questa tendenza, dell’anti-marketing degli attivisti che si battono, ad esempio, per far cessare i soprusi della Shell sui nigeriani, colpevoli di avere una regione ricca di petrolio, o per essere liberi di non dover guardare un cartellone pubblicitario in ogni angolo della propria città.
Sorge spontanea una domanda: sono possibili luoghi senza loghi?