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Nobi (野火 , Fires on the Plain). Regia, sceneggiatura, scenografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Soggetto: dal romanzo omonimo di Ōoka Shōhei. Fotografia: Hayashi Satoshi, Tsukamoto Shin’ya. Costumi: Okabe Hitomi. Musica: Chū Ishikawa. Suono: Kitada Masaya. Interpreti e personaggi: Tsukamoto Shin’ya (il soldato Tamura), Lily Franky, Nakamura Tatsuya, Mori Yūsaku. Produzione: Kaijū Theater. Anteprima mondiale: 2 settembre 2014 al Festival del cinema di Venezia. Durata: 87’.Punteggio ★★★
Link: Trailer - Raffaele Meale (Quinlan.it) - Derek Elley (Film Business Asia) - Deborah Young (The Hollywood Reporter) - Peter Debruge (Variety)
Accade spesso che un remake sia ‘inferiore’ all’originale. Cosa, credo, dovuta al fatto che al remake manca quel contesto storico-sociale che ha in qualche maniera contribuito a rendere grande l’opera di riferimento. Quando nel 1959 Ichikawa Kon diresse Fuochi nella pianura (Nobi), adattando l’omonimo romanzo di Ōoka Shōhei (scritto nel 1951, e edito in Italia da Einaudi nel lontano 1957), le ferite della recente guerra erano ancora più che aperte. La forza del film di Ichikawa, come del romanzo di Ōoka che il regista seguì con alto grado di ‘fedeltà’, stava nella sua terribile storia di cannibalismo fra i soldati giapponesi sbandati nelle Filippine, in grado di gettare una nuova e drammatica luce su un passato ancora assai vivo. È inevitabile che a più di cinquant’anni di distanza la drammaticità di questo passato, o meglio la ricezione che si ha di esso, si sia in qualche modo affievolita e che così le immagini del film di Tsukamoto, che pur segue assai da vicino quello di Ichikawa, tocchino meno lo spettatore di quanto potessero fare quelle dell’originale. Girato a colori – al contrario del film del 1959 –, interpretato – con notevole efficacia – dallo stesso Tsukamoto, e ambientato nella foresta filippina, Fires on the Plain segue il drammatico peregrinare dell’affamato soldato Tamura, vittima di tubercolosi, nell’arduo tentativo di raggiungere il luogo in cui potrà essere finalmente soccorso e riportato a casa. In un paesaggio lussurioso che talvolta sembra doppiare i suoi sentimenti, altre porsi in risoluto contrasto a essi, Tamura scoprirà che il nemico non sarà tanto il filippino invaso, o l’americano suo alleato, quanto i suoi stessi commilitoni, resi come lui, e anche di più, folli dalla follia della guerra. «O tu mangi me o io mangio te» – e il significato della frase va preso nel suo senso letterale – si sentirà il protagonista dire da uno dei suoi compagni, in una logica che sì la belligeranza scatena ma che è anche propria del vivere sociale in molte delle sue forme. Su tutto, poi aleggia, il fantasma dell’antropofagia, cui, in un ultimo barlume di disperata umanità, il protagonista tenta di resistere.Rimanendo fedele al proprio stile, il regista opta per una rappresentazione segnata da forti elementi di interiorità, dove le frequenti immagini soggettive, la violenza della macchina a spalla, i flash onirici, le sovrimpressioni, i viraggi, danno corpo a immagini segnate da un brutale livore espressionista e producono effetti di parossismo audiovisivo, in forme volutamente ‘sgrammaticate’, come ad esempio accade, con la massima evidenza, nella scena della (in)volontaria e casuale uccisione della ragazza filippina. Gli orrori della guerra sono così mostrati attraverso lo sguardo disperato di una delle sue innumerevoli vittime e sono resi concreti attraverso immagini dure di arti amputati, carni umane brulicanti di vermi, e brandelli di pelle staccati. C’è, nel film, un evidente gusto horror: quasi come se Tsukamoto fosse davvero riuscito a girare il suo La notte dei morti viventi. [Dario Tomasi]
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