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Noi e il terrorismo: le domande che abbiamo paura di farci

Creato il 22 gennaio 2015 da Redatagli
Noi e il terrorismo: le domande che abbiamo paura di farci

Dopo gli attentati di Parigi, improvvisamente abbiamo tutti avvertito la necessità di ribadire i nostri valori: «Attacco alla libertà» era, non a caso, il titolo più gettonato sui quotidiani europei dell’8 gennaio. Ci siamo sentiti sgomenti, disgustati, ma soprattutto minacciati, e abbiamo pensato che se non avessimo riaffermato la nostra identità, loro, i terroristi, avrebbero vinto. Abbiamo segnato un confine fra “noi” e “loro”, abbiamo cementato il branco contro il nemico.

Ma, naturalmente, in quel momento non stavamo davvero parlando ai terroristi. Stavamo parlando a noi stessi. Dietro la facciata un po’ pomposa della nostra retorica, si nasconde, in realtà, l’angoscia che la nostra società sia fragile e che, per questo, abbia bisogno di essere rassicurata. E l’Europa è fragile, lo è terribilmente, a prescindere dall’allarme rappresentato dal fondamentalismo islamista.

Una crisi economica ormai senza precedenti perdura da quasi sette anni; in tutti i paesi il sistema tradizionale dei partiti sta collassando e questi, incapaci di adattarsi ai tempi, stanno trascinando nel baratro le ultime vestigia della democrazia rappresentativa; l’Unione Europea continua a essere dominata dai falchi dell’austerità che, con la loro folle ideologia neoliberista, minano le fondamenta della solidarietà fra i popoli; formazioni di estrema destra e xenofobe fanno proseliti dalla Scandinavia al Mediterraneo, mentre a est, alle porte dell’Ue, una guerra civile insanguina il Mar Nero.

L’Europa ha tutto l’aspetto di una civiltà in decadenza, e sì, facciamo bene a ribadire i nostri valori, perché i nostri valori sono in crisi. Tuttavia, non sono loro i primi a metterli in pericolo. Siamo noi. Preferiamo immergerci in un bagno di retorica e rifugiarci in facili semplificazioni, senza accorgerci che, così facendo, ci stiamo solamente trincerando dalle nostre paure più inquietanti per evitare di affrontarle.

Noi e il terrorismo: le domande che abbiamo paura di farci

Uno degli effetti più significativi della strage di Parigi è stata l’obliterazione di una scomoda verità
: gli attentatori non erano stranieri, come nel caso dell’11 settembre (e questo è uno dei motivi per cui il paragone risulta insoddisfacente), ma cittadini del loro stesso paese. Erano francesi, non sauditi. Eppure abbiamo preferito, non si sa quanto inconsciamente o consapevolmente, focalizzarci sulla loro fede religiosa invece che sulla loro nazionalità. Mi si dirà che è normale, perché ormai il terrorismo è un affare squisitamente religioso. Io, però, ho buone ragioni per credere che sia falso.

Ad ogni attacco terroristico, infatti, ricadiamo nell’errore di considerare il fondamentalismo islamista come un ramo della religione musulmana e di porre così il conflitto tra terrorismo e Occidente nei termini di uno scontro fra religioni e, dunque, di civiltà. In questo modo, puntualmente si ripresentano gli appelli alle comunità musulmane che vivono in Europa perché si dissocino dalle stragi e, puntualmente, loro ripetono giustamente di non c’entrare nulla col terrorismo, perché l’Islam non è una fede che predica morte.

Noi e il terrorismo: le domande che abbiamo paura di farci
Questo è un teatrino che ai nostri media e ai nostri politici piace molto allestire, perché gli permette di sgravarsi dalle loro responsabilità e di semplificare all’estremo la questione, in realtà complicatissima, del fondamentalismo. Si passa la patata bollente ai musulmani con un duplice vantaggio: da una parte si afferma implicitamente che il radicalismo sia solo colpa loro e, dall’altra, si insinua che i musulmani siano comunità chiuse, che non vogliono integrarsi e che, in un certo senso, antepongano la loro fede alla lealtà nei confronti dei paesi in cui vivono.

Si tratta di un vecchio discorso razzista che affiora ciclicamente nella storia e che, appena 150 anni fa, riguardava i cattolici emigrati negli Stati Uniti, accusati dai protestanti di essere una quinta colonna del papato in America. Ad esempio, nel maggio del 1844, a Philadelphia, scoppiò una rivolta dopo che si erano diffuse delle voci secondo cui i cattolici nascondevano delle scorte di armi nelle chiese: diverse di esse vennero bruciate, tredici persone furono uccise e un centinaio ferite. Gangs of New York di Martin Scorsese parla proprio di questo, dello scontro fra nativisti e immigrati, e quindi ormai parla di noi.

Questo circolo vizioso (attentato-appello ai musulmani-dissociazione dei musulmani) va spezzato per almeno tre motivi:

  • è controproducente, perché offende i musulmani e li degrada a stranieri; 
  • è sostanzialmente inutile, perché non bastano delle belle parole per contrastare il terrorismo islamista, sarebbe anzi molto più efficace stabilire a fari spenti collaborazioni fruttuose fra le autorità e i rappresentanti delle comunità musulmane; 
  • e, infine, è una cazzata proprio dal punto di vista concettuale.

Il radicalismo islamista non è – chiariamolo una volta per tutte – una religione o parte di una religione. È un’ideologia politica che si è appropriata a tradimento di simboli religiosi. Non diremmo mai che il nazismo era un’espressione rappresentativa della cultura tedesca. Il nazismo era un’ideologia che sfruttava i simboli del nazionalismo e del romanticismo tedeschi, fondendoli con idee violente e razziste. Dobbiamo considerare il fondamentalismo islamista alla stessa maniera. È politica, non è religione, così come il nazismo era politica, non cultura. Sono due totalitarismi equivalenti: se non capiamo questo, non sradicheremo mai il terrorismo.

Noi e il terrorismo: le domande che abbiamo paura di farci
La verità è che abbiamo paura di vedere la situazione da questa angolatura, perché ci obbligherebbe a porci delle domande terrorizzanti. “Com’è stato possibile che la nostra società abbia partorito degli individui come i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly? Perché dei francesi, degli europei, sono giunti al punto da odiare il loro stesso paese e sposare l’ideologia del nemico?”.

Mi rendo conto delle implicazioni di tutto questo. È molto più consolante pensare che le minacce arrivino dall’esterno, che basti chiudere le frontiere per impedire loro di entrare, che siano loro e non noi ad essere sul banco degli imputati, che i terroristi siano, in una parola, stranieri. Eppure, molti occidentali convertiti, come l’italiana di Torre del Greco, sono partiti per arruolarsi nell’Isis.
È molto più consolante pensare che nella nostra società gli individui nascano già formati, con un bagaglio di idee preconfezionate, e che se la loro mente viene alterata, questo avviene solo a causa di una malvagia influenza esterna.

La realtà, però, è un’altra: siamo tutti soggetti ai condizionamenti del nostro ambiente, siamo tutti il risultato della società in cui viviamo. Perché i terroristi di Parigi e, prima di loro, il boia inglese dell’Isis e, prima ancora, gli attentatori di Londra nel 2005, nonostante fossero nati da noi, in Occidente, sono diventati loro?

Dopo Charlie Hebdo, ci siamo riempiti la bocca della parola “libertà”. Ma non stavamo esaltando i nostri valori, ci stavamo autoassolvendo. Anche noi abbiamo una parte di colpa se dei nostri concittadini arrivano al punto di odiarci per quello che siamo. E non sto parlando delle porcate compiute da europei e americani nella loro storia, dalla decolonizzazione ai bombardamenti indiscriminati in Medio Oriente, che pure hanno concorso alla radicalizzazione in quelle aree del mondo. Sto parlando di qualcosa di molto più profondo e di più vicino alla nostra vita quotidiana, del modo in cui abbiamo deciso di organizzare le nostre società.

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Era il 2005, e a Parigi esplodeva la rivolta delle banlieue. A guidarla erano giovani sradicati e marginali, spesso disoccupati, figli e nipoti di immigrati, i cosiddetti Beurs. Lo so, ce ne siamo dimenticati. L’abbiamo rimosso, perché nessuno ne ha più parlato. Per giorni le periferie di Francia sono state messe a soqquadro, e, quando i fuochi appiccati dai casseurs alle automobili si sono placati, i media hanno smesso di occuparsene, come se il problema fosse evaporato nel fumo di quegli incendi. Ma i problemi non smettono di esistere solo perché li si trascura. Poi, un giorno, il 7 gennaio 2015, un commando di francesi, che in quelle periferie sono cresciuti, fra alienazione e delinquenza, mentre lo Stato era del tutto assente, irrompono nelle vie centrali della capitale per mettere in atto una strage.

Indagare l’ambiente in cui i terroristi sono vissuti non significa giustificare le loro azioni. Significa comprendere perché hanno deciso di compierle, capire perché per alcuni il totalitarismo islamista diventa preferibile alla democrazia, capire perché, in buona sostanza, il desiderio disperato di integrazione – come quello che era stato espresso dalle banlieue parigine nel 2005 – si trasforma per alcuni in risentimento violento e volontà di vendetta.

La nostra prima reazione a un attentato è quella di rivolgere lo sguardo a Oriente, ai deserti mesopotamici o alle montagne inaccessibili di Afghanistan e Pakistan. Dovremmo, invece, guardare alle periferie delle città europee, come Parigi, dove il modello di integrazione dei nostri governi è fallito. I Beurs «non sono più autentici magrebini», scriveva Bernardo Valli nei giorni neri delle banlieue, «perché sono nati in Francia e hanno studiato nelle scuole laiche della République; ma non si sentono neppure autentici francesi, pur avendone spesso la nazionalità, perché sanno di non essere accettati come veri cittadini. Non basta un passaporto per essere tali, per usufruire di tutti i diritti enumerati ed esaltati dalla retorica ufficiale repubblicana imparata sui banchi di scuola, il più delle volte disertati, per rifiuto o disaffezione».

Noi e il terrorismo: le domande che abbiamo paura di farci

A un francese figlio di algerini non basta una maglietta di Zidane per sentirsi francese.
Non chiede «un diverso sistema politico ma l'accesso al mercato dei consumi, lavori meno precari, la fine della coabitazione claustrofobica nei quartieri ghetto», affermava Renzo Guolo nel novembre 2005. «Condizionamento ambientale, impossibilità di uscire dal ghetto spaziale e culturale, qualità dei servizi pubblici, tutto ha riprodotto quella separatezza dalla quale molti sembrano ormai convinti che non resti che separarsi. Da questa disperata rinuncia nasce quel processo che in Francia ha visto, in questi anni, il totale abbandono della banlieue da parte dello Stato, delle forze politiche, dell'associazionismo».

Troppo presi dal blaterare di “libertà”, i nostri governi si sono colpevolmente dimenticati di un altro caposaldo della nostra civiltà: l’uguaglianza. E hanno pensato che l’uguaglianza non consistesse che in un po’ di sussidi e nella concessione della cittadinanza, quando, in realtà, uguaglianza significa soprattutto uguali condizioni di partenza per tutti e, quindi, possibilità di mobilità sociale. Che ce ne facciamo tutti, non solo i figli di immigrati, della libertà se, come nel Medioevo, siamo condannati a restare nella stessa classe sociale, se la possibilità di svolgere un lavoro più qualificato di quello dei nostri genitori ci è preclusa dal sistema?

La libertà è inutile senza l’uguaglianza, così come per gli abitanti del blocco sovietico era inutile l’uguaglianza senza la libertà. Per questo l’Europa è una civiltà morente. Per gli immigrati di seconda generazione, frustrati dal fallimento delle strategie di integrazione, dall’assimilazionismo francese al comunitarismo inglese, la rabbia, la disperazione e l’alienazione è ancora più forte.

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Il vuoto lasciato dallo Stato nelle banlieue europee rischia di essere riempito dal fascino del male esercitato dal totalitarismo islamista, che – come tutti i totalitarismi – ha successo nelle società in cui l’individualismo è stato portato alle estreme conseguenze, le persone sono atomizzate e diventano semplicemente superflue. Il totalitarismo promette la rinascita di una comunità saldamente integrata in opposizione alla frammentazione e all’isolamento delle nostre società, come rilevava nel 2006 lo storico Michael Ignatieff:

«Gli attentatori che hanno attaccato i loro concittadini a Londra potrebbero aver scelto di arruolarsi nella jihad per battersi in favore di una comunità immaginaria in grado di offrire loro un maggiore senso di appartenenza. Per la gioia di essere accettati e il piacere di sentirsi coinvolti, piuttosto di accontentarsi della misera consolazione di acquisire la cittadinanza in una società democratica. Gli attentatori suicidi si uniscono a ciò che loro considerano la comunità internazionale degli Umma, i credenti musulmani. Essa offre al giovane cittadino una causa nobile per cui battersi — la difesa dei musulmani ovunque — e un ideale brillante, il martirio in difesa di una fede. Considerare gli uomini-bomba dei fanatici vuol dire non cogliere il più profondo fascino morale di questa forma alternativa di appartenere».

Non so se abbia ragione lo scrittore Ian McEwan quando dice che il fondamentalismo islamista è «una calamita globale per psicopatici» [1] o se, come suggerisce l’orientalista Olivier Roy [2], gridare “Allah Akbar” mentre si compie un crimine sia banalmente un buon modo per finire sulle prime pagine dei giornali, perché quella dell’Isis è la propaganda più a portata di mano su Internet e ha sostituito l’ideologia dei vecchi movimenti insurrezionali.

So, però, che possiamo schedare tutti i passeggeri in entrata negli aeroporti, possiamo schierare l’esercito nelle strade, possiamo persino erigere una gigantesca muraglia galleggiante sul Mediterraneo per impedire gli sbarchi, ma diventa tutto privo di senso se il terrorista di domani è un adolescente emarginato di quindici anni che vive già da noi in un ghetto per immigrati, non ha speranze di accedere alle professioni più qualificate e, dopo una spirale criminale, finirà per radicalizzarsi in un carcere o davanti a un pc.

Come scriveva Ignatieff: «Fino a quando i cittadini immigrati non vedranno alcuni dei loro ai vertici, saranno scettici — e a ragione — nei confronti delle promesse della democrazia. La democrazia è in concorrenza con le ideologie fondamentaliste per la salvezza dell'anima, e in questo momento sta perdendo la sfida».

Jacopo Di Miceli
@twitTagli

[1] La Repubblica del 9 gennaio 2015.

[2] La Repubblica del 24 dicembre 2014.


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