La pratica dell’odio verso chi professa il pacifismo etico o pragmatico è cosa assai diffusa nel mondo contemporaneo. La posizione di chi rifiuta l’uso della violenza e condanna ogni guerra, indipendentemente da giustificazioni economiche, politiche o territoriali, sovente muove gli istinti peggiori di chi si sente attaccato nei propri interessi materiali. Esiste da sempre una specie di maledizione rituale che ricade sulla testa dei pacifisti, che li espone a ritorsioni e attacchi brutali, che li mette all’indice come responsabili di indicibili nefandezze, che li valuta men che zero nella scala ideale degli esseri umani degni di valore. Questo perché l’uomo allo stato di natura è una bestia assassina e prevaricatrice e ogni forma di pensiero pacifista e non violento viene percepito d’istinto come contrario agli orientamenti della specie. La strage compiuta ieri da un commando dell’esercito israeliano su una nave turca della “Freedom Flotilla” in navigazione verso Gaza con un carico di aiuti umanitari rientra perfettamente in questa pratica di cannibalismo. Al di là delle conseguenze politiche, dei tentativi di giustificazioni delle autorità militari, degli equilibrismi diplomatici, del fatto stesso che la strage fosse o meno premeditata e autorizzata dalla linea di comando israeliane, l’istinto che si cela alla base dello scempio compiuto ieri è di natura primordiale. Il vice-ambasciatore israeliano all’Onu Daniel Carmon si è espresso con le parole: “Che pacifisti sono quelli che usano mazze e prendono le armi dei nostri soldati, puntandole poi contro di loro?”. La replica di Carmon è, senza volerlo, un’implicita accettazione della natura ferina che ha mosso l’intera operazione militare. Un’argomentazione di questo genere infatti è tutta tesa a dimostrare la contraddizione in termini in cui sarebbero incappati i pacifisti sulla nave turca, come se l’inosservanza di un precetto teorico, in questo caso l’uso delle mazze (peraltro ancora tutto da dimostrare), possa di fatto giustificare la reazione dei soldati e il massacro che ne è scaturito. È in tutta evidenza il sintomo di un’insofferenza violenta e ancestrale nei confronti di chi, con un’operazione culturale, si discosta dall’inclinazione di natura propria del genere umano. In questo contesto la vita di un pacifista vale meno di quella di un insetto, egli è riconosciuto come un essere inservibile, dannoso, improduttivo, uno sterile ostacolo al progresso della razza, e come tale la sua esistenza va abbattuta senza esitazioni. Com’è scritto in Jenin di Etel Adnan: “Il male ha subito una mutazione che è / l’opposto di quella che ci aspettavamo. // Abbiamo dunque diritto ad odiare – ma non / ci affrettiamo a stupide conclusioni. Non siamo di questo mondo”.
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