Su Dio è violent di L. Muraro.
Innanzitutto un nuovo modo di pensare alla politica. Voltare le spalle significa porsi in una prospettiva radicalmente diversa rispetto a chi ritiene che questa attività umana coincida con il ‘porsi di fronte’ di prospettive diverse e soprattutto di chi crede che opporsi alla politica dominante sia un mettersi contro, uno scontrarsi. Questo metodo non funziona più. Non funziona più perché questo modo di intendere il conflitto politico si inscriveva all’interno della logica specifica del patto sociale, un patto che è morto. Il conflitto inscritto all’interno del patto, da esso tollerato, era inteso in un senso specifico: per tutte le parti in lotta si trattava di confliggere per lo stesso obiettivo ovvero detenere quel potere centrale, frutto del patto stesso, nonché suo luogo specifico di concretizzazione. Se le parti non concordavano sui mezzi o sugli scopi immediati da perseguire, nondimeno l’obiettivo primario era lo stesso, il potere, obiettivo il cui perseguimento confermava la base su cui esso stesso poggiava. La lotta per il potere era insomma inscritta nella logica del patto che fondava il potere stesso.
Ma il velo di Maia oramai è caduto. Ciò che si è rivelato è non solo l’inconsistenza del patto, ma soprattutto il volto dei suoi contraenti. Prensentatosi come l’espressione della generalità, esso si è scoperto come il mezzo primario con cui realizzare l’ esclusione. Il vero senso del patto, il suo oggetto e fine, sono coloro che non vi partecipano. In particolare le donne. Le donne, dice Muraro, la loro storia racconta in sè il senso di quella menzogna: non solo non partecipano attivamente al patto, ma vi compaiono come oggetti di un ‘contratto sessuale’. Esse hanno conosciuto sulla propria pelle la forza di quella finzione. Sanno infatti che uno dei perni di quel patto, l’esclusione della violenza dal sociale e il suo concentrarsi nella mani del potere è esso stesso una pura costruzione teorica. Oggetti di un contratto sessuale, le donne sono state anche soggette ad una violenza privata di cui i loro padri e mariti non sono mai stati privati.
Ed è qui che si inserisce il discorso sulla violenza, su come è stata intesa, su come invece diventa altro se inserita in un discorso diverso. La violenza del patto, la violenza legittimata dal patto è violenza privata nei confronti delle donne e violenza pubblica che diventa ‘giusta’nel momento in cui il suo scopo è l’accesso al potere.
La violenza di chi volta le spalle è un’altra cosa. È un rivolgersi ad altro e non un porsi contro, non un mettersi di fronte. È cercare una nuova immagine mitica, cercare qualcosa che abbia ‘forza simbolica’. Si tratta di creare nuovi simboli questa volta inclusivi, questa volta capaci di ammettere la violenza senza giustificarla, senza doverla inserire in una struttura che, nel momento in cui è collocata in spazi specifici, non viene frenata ma anzi si amplifica. Si tratta di pensare “una violenza che non è strumento di nessuno, che il diritto non può fare sua giustificandola, e che nessuno può fare sua, manifestazione di una giustizia che ci oltrepassa dalla quale però noi umani possiamo lasciarci usare”. La violenza, per Muraro, ha quasi consistenza ontologica. E non solo. “Dio è violent”, la violenza è una realtà metafisica. In radicale opposizione al razionalismo borghese che vorrebbe il logos come principio fondamentale, Muraro pone la violenza come ciò che scardina la logica di quel discorso e ne mostra i limiti. La violenza come ciò che mette in discussione il mondo fittizio del logos.
Ma cos’è la violenza nella sua essenza? Essa si mostra soprattutto come qualcosa che non si identifica con la facoltà di distruggere. Essa è, piuttosto, capacità di creare. Una messa in discussione dei simboli dati che, in fondo, non ha bisogno di armi. Chi vince è ancora il più forte, nel senso però del ‘simbolicamente’ forte, chi è capace cioè di costruire simboli. Gli esempi di questa violenza dicono molto di essa. Piazza Tienanmen. Un uomo davanti ad un carro armato. Nessuno scontro e quindi, soprattutto, nessun confronto. Da qui la nascita di un simbolo prodotto di una violenza, quella dell’uomo con la borsa, che è ben altro da quella del carro armato.