Perchè la parola “nomade” ci piace così tanto? Perchè, molti di noi amano passare le loro vacanze in tende e caravan come queste tribù erranti? Forse perchè, nel corso della preistoria e durante i due milioni di anni trascorsi, siamo stati tutti dei nomadi e la Terra era di tutti. Dopo diecimila anni, l’aumento della popolazione ha creato la necessità di coltivare il suolo e sedentarizzato l’umanità, fissando poco a poco tutti noi in limiti precisi. Nella nostra memoria collettiva, i nomadi, testimoni del nostro passato, resistono nel loro ideale di spazio e di libertà. Chiamiamo nomadi le tribù i cui membri non hanno una fissa dimora e che conducono una vita errante. Sono solo qualche milione nel mondo e possiamo trovarli ovunque, in ogni latitudine di questo nostro pianeta. La maggioranza comunque si trova nel Medio Oriente, dove vengono chiamati beduini , nel Maghreb e a nord dei paesi del Sahel, dove sono riconosciuti con il nome delle loro tribù di appartenenza. Molti praticano un nomadismo stretto, come i Touaregs nel sud dell’Algeria, altri al contrario, come i Rgueibat, si spostano dal sud del Marocco sino alle sorgenti del Senegal e dell’Atlantico, passando per Tindouf in Algeria. I nomadi sono pastori. Vivono essenzialmente di prodotti della loro pastorizia; dromedari, capre e a volte qualche bovino (presenti nel Sahara). Tra questi pastori e le loro mandrie esiste una vera associazione per la sopravvivenza: il nomade segue lo spostamento del bestiame verso le pasture ma è lui che conosce dove dirigersi per trovarle. Nel Sahara, piove in inverno al nord e d’estate al sud: è laggiù che il pastore nomade porterà le sue mandrie, calcolando le tappe per le capre, facili da nutrire ma poco resistenti, e i dromedari, infaticabili ma più esigenti. Bisogna saper identificare i segni annunciatori della pioggia, conoscere le stelle per non perdersi, identificare le zone dove esistono pozzi temporanei che sovente devono essere riparati. Un solo errore può essere mortale, per gli animali e per gli uomini. I nomadi praticano il commercio; un tempo vendevano i prodotti delle regioni attraversate, sale, tessuti, armi, schiavi neri contro cavalli. Oggi, con altri prodotti, le carovane seguono le stesse piste di allora: dai porti del Mediterraneo verso la penisola arabica, trasportando sovente televisori e magnetoscopi… I nomadi, che non hanno paese, possiedono una organizzazione sociale molto forte: le tribù. Queste comprendono tutti quelli che credono di discendere dallo stesso ancestro, e questa immensa famiglia e per loro come una patria nella quale debbono assistersi e aiutarsi mutualmente. Ma l’uguaglianza non regna sempre in seno alle tribù. Ognuno ha il suo ruolo: i capi, anziani guerrieri o religiosi, sono i proprietari delle mandrie; gli artigiani lavorano il cuoio e i metalli; gli artisti sono musicanti e cantori; gli schiavi, perchè esistono ancora degli schiavi, non possiedono nulla, neppure una identità, svolgono i lavori domestici o sorvegliano le mandrie. Le condizioni del deserto obbligano i membri delle tribù a condurre una vita sobria e austera, che lima in parte le inuguaglianze. Tutti i nomadi del mondo (eccetto gli eschimesi che costruiscono i loro igloo ad ogni cambio di luogo), trasportano le loro abitazioni; nel nord del Sahara sono tende di lana, di cotone bianco con grafie nere, doppiate con tessuti multicolor, nel sud. I pali di legno che le sostengono sono alti e solidi, perchè le tende sono vaste. Poche cose all’interno: bauli, utilensi da cucina, tappeti e cuscini. Il cibo è frugale: latte cagliato, burro fermentato, datteri e qualche cereale con cui preparano il pane cotto nella sabbia. Il thé, anch’esso è un nutrimento; nel Sahara si beve molto zuccherato, tre piccoli bicchieri per volta, venti volte circa durante la giornata. In Arabia il caffè sostituisce il thé: tostato e cotto al momento, prima di berlo. Ma la vera festa è la carne: all’arrivo di un ospite, che in ogni caso bisogna onorare, si sacrifica una capra come segno di benvenuto. I vestiti, anch’essi sono semplici; nel Sahara, gli uomini si vestono con un grande rettangolo di tessuto che risale sulle spalle per aprirsi poi sulle spalle: è il draa, colorato nei toni del blu. Ai piedi larghi sandali che permettono di camminare senza sprofondare nella sabbia. Le donne invece si arrotolano in 5 mt di tessuto nero o colorato, fermato poi sulla fronte. Tradizionalmente il colore degli abiti, l’indigo, è un blu quasi nero che macchia la pelle ed è per questo che questi uomini sono chiamati “uomini blu”, i nomadi del Sahara. La ricchezza per i nomadi non ha peso; è costituita da colori e disegni, da suoni e parole; è la loro cultura, fragile, è minacciata. Il lusso dei nomadi è il tempo, un bene che noi occidentali abbiamo perso: il tempo di ornare degli oggetti , di dipingere il cuoio, di cesellare dei gioielli e decorarli con smalti colorati; il tempo dei ricordi, da trasmettere memoria in memoria, il tempo di scrivere delle poesie e recitarle, di fare della musica e ascoltarla; il tempo di danzare. Le danze degli uomini rievocano la guerra o l’amore, quella delle donne, sedute, è un gioco di braccia e di mani che si muovono ondulando al ritmo della musica, ricorda avvenimenti passati. E poi ancora il tempo di pregare sotto il cielo più bello del mondo.
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