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Nomine: la buccia di banana su cui rischiamo di perdere l’ultima speranza

Creato il 17 aprile 2014 da Tabulerase

buccia1Abbiamo dato – finora – fiducia al presidente del consiglio come si fa con un sovrano che si spera “illuminato”. Forse è stato un errore. Possiamo oggi dire – dopo l’orgia di commenti delle prime ore – che le nomine uscite due giorni fa rappresentano nella migliore dell’ipotesi un rinnovamento a metà e almeno in un caso specifico (Finmeccanica), rappresentano addirittura un passo indietro. Laddove siamo nella condizione di non poter più sbagliare, di non poterci più permettere – neppure per un giorno – di accontentarci di sostituire la politica con il marketing.

In un’era nella quale tutti sembrano convinti che è solo attraverso l’investimento in innovazione che un Paese può guadagnare o difendere la propria competitività, lascia stupefatti la scelta alla guida dell’azienda italiana che – tra quelle grandi – è quella che spende la percentuale più alta del proprio fatturato in ricerca e sviluppo. Due miliardi di euro, più del dieci per cento del fatturato, al quale si aggiunge una forza lavoro fatta di decine di migliaia di ingegneri usciti dalle migliori facoltà italiane che rappresenta buona parte di ciò che rimane di una tradizione di eccellenza italiana che si è dispersa nel tempo.

Era difficile un anno fa – se avessimo voluto giudicare le cose con un criterio puramente logico, ancor prima che aziendale – come potesse essere stato nominato – seppure con finalità transitorie – Presidente di Finmeccanica uno che di mestiere aveva fatto il Capo della Polizia. Ancora di meno, oggi si capisce come è possibile che quella presidenza “ponte” sia confermata e che, anzi, venga affiancato al timone operativo del gruppo da un manager che, invece, di mestiere aveva fatto l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato. Ed in entrambi i casi prescindiamo dalle prestazioni alla guida delle rispettive organizzazioni. Il punto è infatti un altro: cosa c’entrano poliziotti, ferrovieri e avvocati (tre su cinque dei rimanenti consiglieri di amministrazione lo sono) con l’impresa che compete con Boeing e BAE? Quale il messaggio che arriva a tanti tecnici di grande valore che sono ancora in Alenia o in SELEX? Quanti altri giovani managers stanno pensando di andar via?

Certo – dirà qualcuno – è già un risultato importante per Finmeccanica dotarsi di un parafulmine solido visto che saette improvvise hanno spedito dai magistrati diversi dei suoi ultimi amministratori delegati e manager di punta: ma non può bastare evitare di avere grane con la giustizia per una delle poche imprese italiane che è davvero immersa – volente o nolente – in un contesto di fortissima competizione globale.

Il rinnovamento, invece, c’è stato almeno in parte nelle altre tre multinazionali partecipate dal Ministero dell’Economia. Tuttavia, la parità di genere è parziale visto che tutti i nuovi amministratori delegati sono maschi; e, soprattutto, sembra essere stata persa un’opportunità che avrebbe prodotto rinnovamento almeno quanto quella di una maggiore rappresentanza femminile: aumentare il tasso di internazionalizzazione, i punti di vista esterni alla storia (non certo lastricati di successi) di imprese fortemente condizionate dalla politica. E allora perché nessuno ha – né tra i politici, né tra i commentatori – ha sollevato in Italia la possibilità di reclutare – anche nelle posizioni apicali – stranieri, come ha fatto (con un canadese) un’istituzione prestigiosa e delicata come la Banca d’Inghilterra? Perché – dopo tanta retorica sui “cervelli in fuga” non ha provato il Governo a destinare una quota dei nuovi nominati a italiani che hanno fatto esperienza in multinazionali che sono leader nei propri settori? Perché non usare l’occasione delle nomine per scindere in maniera più definitiva il legame tra salotti romani e consigli di amministrazione, tra la politica che deve ancora fissare gli obiettivi e il management che li deve conseguire?? Ed, invece, il rischio è che si verifichi esattamente l’opposto.

Ma è soprattutto il metodo (definito, peraltro, da una provvedimento del Governo precedente) di nomina che lascia perplessi.
Tra i nuovi consiglieri di amministrazione (quello di ENEL) c’è anche il Presidente di una fondazione dedicata a promuovere la cultura “open”, quella cioè della trasparenza di tutti gli atti di un governo o di una amministrazione: l’avvocato Alberto Bianchi di Firenze non potrà, però, che convenire che l’intera procedura di nomina non ha molto a che vedere con la trasparenza.

Chi volesse avanzare la propria candidatura ha trovato nei giorni scorsi solo un indirizzo di posta elettronica al quale mandare il CV. Nessuna indicazione esisteva sulle date di scadenza entro la quale fare l’invio; nessuna possibilità era prevista per accompagnare il CV con una lettera di motivazione; nessuna procedura di preselezione era stabilita e, pertanto, non c’è stato nessun colloquio e, molto più grave, nessuna possibilità per chi si candidasse per fornire un’idea sul suo punto di vista sull’impresa che si candidava a dirigere o controllare e discutere una qualche ipotesi di piano industriale. Nessun candidato ha potuto ragionare della squadra che vorrebbe vedere affiancato alla propria persona e nessuno ha discusso della propria remunerazione o della possibilità di legarla ad obiettivi aziendali.

Matteo Renzi è, ancora, l’ultima spiaggia di un Paese arrivato al capolinea. Tuttavia, alla prima vera prova di esercizio di potere, sembra aver rottamato solo in parte un non metodo nella selezione delle classi dirigenti. Certo forse i condizionamenti sono stati pesanti e un costo alto è stato pagato all’obiettivo – comunque ambizioso – di cambiare quattro amministratori delegati su quattro. E, tuttavia, questa vota il cambiamento sembra essere stato più lento rispetto agli squilli di tromba che accompagnano i movimenti del presidente del consiglio.

Il rischio è che a “cambiare verso” sia – dopo la vicenda nomine – la curva del consenso che Matteo suscita. Verso il basso come è successo con le quotazioni dei titoli delle tre multinazionali di stato. Per fortuna, quello dell’altro ieri è stato solo un primo, importante passo: fondamentale sarebbe adesso che il presidente del consiglio capisca che qualità del leader è anche comprendere di aver fatto un errore e di imparare velocemente per cambiare – lui stesso – rotta.


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