Ultimamente, da quando sono stato eletto presidente del consiglio del mio Comune mi trovo ad affrontare spesso – non senza un momentaneo senso di impotenza – la domanda delle domande: il lavoro che manca. Ok, vivo in un paese difficile, dove spesso il senso di impotenza prevale e la rassegnazione si insinua come un’ombra nei nostri volti , al di là delle differenze generazionali. La frase del k.o è : che ci possiamo fare? Le cose vanno così perché è così che devono andare. Il mio è un paese che sta invecchiando, dove non si sperimenta più, non si svolta più in sentieri inesplorati per “vedere l’effetto che fa”, dove manca la curiosità sana e fresca della scoperta. Oggi la prudenza – tanto cara ad Aristotele – non è più una virtù, ma un disvalore micidiale, messa in scena da un pericoloso atteggiamento conformista. Le uniche finte trasgressioni ad un copione stanco e monotono vivono nei social, dove si fa la corsa a mettersi in vetrine mute, statiche e, a volte, grottesche. In questa realtà parallela, il fine è diventato ottenere il timbro di conformità e di accettazione senza esprimere niente altro che visioni di stanchi corpi in vetrina. Il fine è privo di senso, perché nella liquida contemporaneità il senso sta nella sola ripetizione coattiva di comportamenti esibizionistici: un secchio d’acqua gelata in testa o ripetitivi autoscatti sono uniti dallo stesso muto filo conduttore. Allora non si deve smettere col narcisismo compulsivo, se questo ci diverte o ci rende felici. Ma , parallelamente, si deve invece provare, tentare , sperimentare vie nuove: in una parola , si deve avere il coraggio di cambiare anche se questo non è “gradito” agli altri. Si deve insomma pensare fiduciosamente alle alternative, che ci sono e stanno al di là delle secchiate d’acqua gelata. Si deve riprendere a lavorare insieme per creare nuove idee, nuove professioni, nonostante tutto sembri apparentemente insormontabile. Ma l’alternativa è affondare o iniziare a nuotare.
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