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“Le imprese italiane sono troppo piccole, incapaci di crescere ed innovare, troppo specializzate negli stessi settori a bassa tecnologia e in cui operano le economie emergenti (ben più competitive)“. A scriverlo, in un recente rapporto sugli squilibri macroeconomici, è la Commissione Europea.
Si tratta di una delle definizioni purtroppo più lucide del risultato di vent’anni di zero politica industriale in Italia. Vent’anni in cui si sono anche sviluppate centinaia e migliaia di imprese straordinarie, contro tutto e contro tutti (questo non dimentichiamolo, di storie ce ne sarebbero da raccontare…) – ma il sistema-Paese, preso nel suo insieme, scivolava nella “Serie B” mondiale descritta da Bruxelles.
La performance delle esportazioni italiane, prosegue il rapporto, “continua a soffrire a causa di un modello di specializzazione dei prodotti non favorevole, e della limitata capacità delle imprese di crescere” nelle proprie dimensioni. “Il modello di specializzazione italiano è molto simile a quello dei mercati emergenti come la Cina, con la maggior parte del valore aggiunto nei settori tradizionali, relativamente low-tech”. Ciò è dovuto “principalmente alla limitata capacità di innovazione delle imprese italiane“.
Prosegue il rapporto: “la predominanza di micro e piccole imprese mette in luce le difficoltà delle aziende italiane di crescere e diventare attori internazionali, in ragione delle barriere istituzionali e normative, delle caratteristiche strutturali delle imprese e di un ambiente “non-business friendly”. Questi fattori limitano il flusso di investimenti stranieri diretti, impedendo all’Italia di trarne vantaggio, attraverso il trasferimento di capitali e di conoscenza, un aumento del coinvolgimento nel commercio mondiale e l’impulso per un ambiente imprenditoriale più competitivo e un management delle società più moderno“.
Nulla da ridire: è la fotografia dell’Italia produttiva nel 2013. Nitida e trasparente. Ribadiamo: una fotografia che non si applica a quegli imprenditori che -remando controcorrente- hanno investito in imprese innovative e ad elevato capitale umano. Ma qualche rondine non fa -purtroppo- primavera: il quadro “macro” è questo.
E si riflette, direttamente o indirettamente:
-in chiusure record delle imprese a nei primi tre mesi del 2013 (+13% rispetto al 2012);
-in buste paga ferme a gennaio (dato Istat);
-in sei milioni di persone di fatto fuori dal mercato del lavoro, in un Paese che ne conta 60 milioni: quasi tre milioni di inattivi, insieme a due milioni e 744mila inattivi. Dati da allarme rosso fuoco;
-e se gli indicatori dicono qualcosa, persino la Lombardia, un tempo “isola felice” e ricca d’Italia, in soli tre mesi ha perso altri 50mila impieghi. Secondo “La Repubblica”, licenziano Fnac, Darty, Carrefour, Manpower, Upim, Panasonic, Nestlè, Nokia, persino alcuni tra i più prestigiosi hotel di Milano. Una catastrofe.
E’ vero: c’è la crisi, lo Stato non ha pagato per anni le imprese secondo tempi accettabili, manca un Governo che dia la direzione. Il Paese è in stallo…
Ma finiamola con gli alibi: paghiamo anni di zero investimenti sul futuro. Intrappolati nel boom degli anni ’80, non abbiamo visto cadere il muro di Berlino, non abbiamo previsto l’emergere di nuove potenze, non abbiamo capito nulla di quanto accadeva fuori dalla Penisola. Abbagliati da una classe dirigente ignorante e provinciale. A tutti i livelli.
La colpa è anche dei maghi della finanza, è anche dell’Europa, è anche di tutti gli altri. Ma è -in primis- nostra. Finché non individueremo i maggiori responsabili di questo sfacelo (noi stessi), non potremo porvi rimedio.
Lo sapete che, secondo il WTO, nel 2012 siamo scivolati al nono posto (uno in meno), nella quota di esportazioni a livello mondiale? Arretriamo anche negli scambi globali: è l’effetto di quella straordinaria denuncia che la Commissione Europea ha messo nero su bianco.
La fuga dei migliori talenti all’estero è l’ennesimo effetto, non la causa del problema.
Basta alibi. Basta dare la colpa agli altri. Guardiamoci dentro, in modo intellettualmente onesto. Scopriremo un sacco di problemi.
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