Durante la stessa serata televisiva, mentre nel neonato Sky Atlantic, canale di Sky, nel primo episodio doppiato in italiano della prima stagione di House of Cards, Kevin Spacey rivolgeva uno sguardo al telespettatore in camera facendo raggelare il sangue, tra una malefatta e l’altra, con un cinismo da politico senza scrupoli, nel cuore del potere americano a Washington, a pochi tasti di telecomando di distanza, in quel di Spoleto, Remo Girotti, alias Terence Hill, alias Don Matteo, durante l’ultimo episodio della nona stagione, con uno sguardo intenso e parole pronunciate a mezza bocca, ammansiva l’ennesimo omicida di quel gran brutto posto che sono i borghi del Centro Italia da quando lui si diletta a fare il parroco da quelle parti, convincendolo a pentirsi e a costituirsi.<!–more–>
Il paragone sembra impietoso e forse lo è. Non voglio accodarmi alla pletora dei critici televisivi, giornalisti d’opinione, tv-series addicted, che si inginocchiano di fronte alla genialità delle produzioni televisive d’oltreoceano (un tempo che sembra lontano semplicemente “telefilm”), che possono contare su attori fantastici, premi Oscar, sceneggiatori da urlo, registi cinematografici d’eccezione, e una cura nei dialoghi che rasenta la perfezione scientifica. Non voglio farlo seppur appartenga io stesso alla categoria dei fruitori ossessivi compulsivi di serie tv made in USA, talvolta senza nemmeno aspettare il doppiaggio italiano e io stesso me ne faccia promotore verso gli amici in modo spesso anche troppo entusiastico.
Dicevo che non voglio accodarmi e nemmeno voglio fare sterili paragoni tra generi incomparabili, ma don Matteo, nel suo genere è la miglior serie televisiva italiana che io abbia mai visto. L’ho detto, anzi l’ho scritto che è pure peggio perché rimane agli atti.
Sì, va bene, mi si dirà, ma se hai visto CSI, Dottor House, Dexter, Games of Thrones, Breaking Bad, Weeds, Big Bang Theory o il recentissimo capolavoro True Detective (e ne tralascio volutamente molte altre), come fai a guardare Don Matteo 9?
Me lo sono chiesto pure io. Le prime risposte sono banali: Terence Hill, ad esempio, il protagonista, un prete detective (che non è sta grande novità), ma non è un prete “di strada”, come sarebbe stato lecito aspettarsi per accalappiare il consenso, soprattutto in tempi di “papafranceschismo” diffuso.
Don Matteo si veste quasi sempre da prete, il 90% delle volte indossa la talare, dice dei no anche duri, non canta Halleluja ai matrimoni e non partecipa a The Voice, si concede solo ogni tanto qualche schiaffone autocitandosi volutamente e richiamando i fasti degli spaghetti western.
E poi gli altri attori, il comandante e il maresciallo dei carabinieri con un bravissimo Nino Frassica, la perpetua Natalina, il sacrestano Pippo e tutti gli altri attori che nel corso degli anni si sono avvicendati. Il Comandante Tommasi e il maresciallo Cecchini fanno sorridere non in modo forzato o con battute sciape, come accade spesso ad esempio in Un Medico in famiglia, dove si respira un’aria un po’ più banalotta e scontata. Loro sono veramente bravi, si vede del mestiere vero.
Le trame del giallo sono solo un pretesto, con dinamiche che si ripetono sempre uguali, ma che incredibilmente si sposano alla perfezione con quella che è poi la finalità della serie, che è quella di intrattenere il pubblico delle famiglie di Rai Uno infondendo un messaggio positivo ma, e chi segue la serie lo può confermare, non banalmente mieloso. Insomma, il morto ci scappa e non risucita, molte storie sono attualissime e dall’esito non scontato. Non tutti si risvegliano dal coma, non tutti si pentono, non tutto va a finire a meraviglia anche se pochissimo va a finire male (non si può pretendere troppo).
La serie Don Matteo ha avuto il pregio di non fossilizzarsi e di crescere, di aggiustare il tiro negli anni, riuscendo così a non stancare.
Insomma, 8-9 milioni di spettatori a serata significa avere un pubblico che va ben oltre la sala dell’oratorio parrocchiale.
Quest’anno in particolare dietro la sceneggiatura degli episodi della serie c’è il lavoro di autori giovani, alcuni studiano per diventare un giorno sceneggiatori di serie importanti, magari proprio americane e lo si nota, rispetto alle prime stagioni, dal miglioramento delle trame e dalla cura dei dialoghi.
La chiudo qui per non sbrodolare troppo, anche perché la Lux Vide, casa produttrice della serie, non mi paga e non ho la cultura, l’acume e l’affabilità del simpaticissimo e amatissimo Aldo Grasso, ma don Matteo è un esempio mirabile del fatto che anche in Italia, se si punta alla qualità e si comincia a non trattare gli spettatori da poveri deficienti, i risultati si portano a casa.
[pubblicato anche sul blog Spifferi]
symbel (redattore)