Il bus che mi porta dalla scuola in cui insegno verso la stazione è per me un punto di osservazione privilegiato dell’umanità in cui mi muovo.
Da qualche giorno, passando, osservo un palazzo ma non trovo il coraggio di scattare una fotografia o di scriverne perchè mi fa troppo male.
E’ un vecchio palazzo anni Sessanta- forse ancor più antico- completamente sventrato per far spazio ad una ristrutturazione che si è fermata a metà, forse sotto gli impietoso colpi della crisi, forse per provocare le mie riflessioni.
I corpi ignudi, noi li copriamo, per pudore; le case sventrate che restano lì senza un segno di pietà, senza un velo che copra la loro dignità, fanno male.
Di questo palazzo di 4 piani sono rimasti in piedi solo due lati di muri perimetrali, un angolo retto di croste. In questo scempio fatto alle vite altrui che lì vissero, io noto la linea obliqua di quella che doveva essere la tromba delle scale: è rimarcata dallo zoccolo tinteggiato di marrone e dal segno dell’attaccatura della soletta, di quelli che dovevan oessere igraditi, che non ci sono più, strappati come denti da un volto non più umano.
Mi fa male, dicevo all’inizio: mi fa troppo male vedere una stabile ridotto così. E’ come se una bomba avesse sventrato la vita che là risiedeva; è come immaginare che di qui a qualche decennio qualcuno potrebbe violentare allo stesso modo il luogo intimo dei miei affetti più cari, la cucina in cui abitavo, la camera in cui sono nati i miei figli… il luogo della mia vita, dei miei sacrifici, di tutto.
Di fronte a queste mie considerazioni, la saggezza di mi madre mi direbbe che è normale, che questa è la vita, che ciò che conta per noi non è necessariamente importante per altri, che non ci si deve legare agli oggetti, che siamo solo di passaggio in questo mondo, con i nostri affetti con i nostri luoghi con ciò che a noi pare tutto e invece è niente.
E avrebbe ragione.
Di fronte a questa immagine, che rimane impigliata a ferire i miei occhi e il mio cuore, mi viene in mente la famosissima poesia di Salvatore Quasimodo, dedicata a una Milano sventrata dai bombardamenti ed ispirata ad un salmo biblico:
ALLE FRONDE DEI SALICI.
E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Questa poesia è come questa casa che ho di fronte, sventrata, forse impossibile da ricostruire, priva di speranza e densa di ricordi che non ritornano. Questa poesia è come il mio cuore, in cui l’immagine è impressa coem una lancia che non guarisce più. Forse sono ancora troppo bambina per poter accettare che tutto, prima o poi, ha una fine.