Se leggi nel web recensioni-opinioni-articoletti, Cate, io è un libro stratosferico. E’ pure tra i 12 finalisti del Premio Strega. (Vabbe’, certo, il Premio Strega ha premiato La solitudine dei numeri primi, tra gli altri…).
Poi arrivo io, guardo la copertina accattivante, scopro che è considerato il Capolavoro Promesso di un tema scottante (l’obesità, in questo caso nei panni di un’adolescente triste e intelligente. Che viene da chiedersi, indifferenti di risultare poco politically correct, perché al Premio Strega quest’anno vadan tanto malattie e disagi, tra disabilità/obesità/sterilità/aborto/…), e mi accorgo che l’ebook costa solo 1,99 euro e lo leggo.
E non ci capisco una mazza.
“Ma che c’è scritto?” continuavo a chiedermi.
Che ok che sto cercando di ridurre le dosi di caffeina (i miei neuroni vanno avanti non a glucosio ma a metilxantine), però insomma, in genere non ho grandi difficoltà a comprendere un testo… (a meno che non sia il modulo per la dichiarazione dei redditi)
Ma qui tra metafore disseminate come letali mine, paragoni, frasistrampalate, ordine delle parole che sembra uscito dalla lavatrice, io, che sono una mente semplice, mica mi raccapezzavo.
Sento le cose di là strette tra gli elastici staccarsi, immagino l’infinità di nodi sciogliersi e la gioia del lieto fine. In cucina è appena più caldo, papà già da un pezzo è ai fornerlli e il caffè macchia di un odore forte l’aria come un cane dalmata.
Mi sentivo stupida, non capivo niente, poi l’amica G. che ha iniziato anche lei a leggerlo e che in genere ha in genere una predilezione verso testi dal lessico ricco e dalle azzardate metafore, mi fa…
“Ma che c’è scritto?”
L’amica G. è un’ottima amica, quindi o siamo stupide in due, o cercava di non farmi sentire stupida. Oppure Matteo Cellini aveva bisogno che qualcuno, leggendo Cate, io gli dicesse di calare la mano sui manierismi esibizionismi e badare più alla sostanza.
Che ce la fa, eh, lo dimostra quando la storia diviene trama ed è piuttosto scorrevole. Diviene trama raramente – a dire il vero – perché per il resto il lettore deve assistere a questi sfoggi di orpelli e orpellini stilistici assolutamente insensati e innecessari. Sembra un testo che vuol stupire a tutti i costi con la propria forma prima ancora che col contenuto, e l’effetto è decisamente chiassoso più che elegante.
Mi stupirei molto nello scoprire che Matteo Cellini non ha letto qualcosa Aimee Bender, perché in Cate, io ce ne è più che una manciata. Ma se lì la parola diviene talmente evocativa da essere ancor prima immagine che frase, qui le parole sembrano calzini spaiati messi a casaccio sullo stenditoio e che ci vuol mezz’ora per metterli insieme e appaiarli nella cesta.
Ma vabbe’, dai. Magari ci si può passare sopra, anche se con un po’ di insofferenza.
Ci si passa sopra e si entra nella testa di Cate, la protagonista. Una ragazzina obesa che ci racconta in prima persona al presente la storia. Una scelta di narratore rischiosa-rischiosissima, che se nei tanti romanzi e romanzetti d’oggi americani, dove va tantissimo, si risolve in una specie di diario niente affatto coinvolgente – vado allo specchio, mi osservo, penso che sono bella, mi lavo i denti, mi volto, faccio la cacca, corro, perdo il fiato – qui invece fa sì che la natura riflessiva di Caterina si riveli nell’80% del romanzo in interminabili e pesantissimi spiegoni, inforigurgito e digressioni.
Pagine infinite di monologhi esistenzialistici generalistici che mi hanno ricordato i pesanti momenti di L’eleganza del riccio. Intervallati, giusto per fare respirare il lettore, da brevi sprazzi di dialogo, ahimé del tutto improbabili e impostati: roba che vira da discorsi tu-per-tu famigliari cuore-in-mano che manco nei migliori incontri dallo psicologo o nei peggiori telefilm americani, fino a irreali accessi di poeticità in bocca ad adolescenti.
Poi c’è la questione del contenuto, l’obesità, e la mia sensazione è certi romanzi già solo perché trattano certi temi con malinconia e poesia e dramma sono sensssssibbbbili. A mio parere Cate, io da questo punto di vista è semplicemente banale, prevedibile, con un tocco Mulino Bianco nel finale.
Che sia scritto da un uomo è evidente, tra l’altro, perché in questo punto di vista in prima persona c’è così poco di fisico. La scelta di mantenere tutto su un piano psicologico, a volte onirico, è palese… ma qualsiasi ragazza o donna abbia provato anche solo che significa essere un po’ sovrappeso sa che non è questione di dire, semplicemente, “sono cicciona” e stop e di ricondurre tutto a “metto maglioni grandi e lunghi”. No, c’è l’intimità dolorosa della consapevolezza continua del proprio corpo – odiare la femminilità, il seno formoso eppure non “sexy”, le cosce che sfregano, il sudore, il disagio… Tanti e tanti dettagli che “sono cicciona” non comprende.
Ma comunque, infine ci sono arrivata in fondo: è breve e ho fatto più fatica a terminarlo che se fosse stato lungo cinquecento pagine. Una sofferta maratona di lettura con insofferenza.
autore: Matteo Cellini
titolo: Cate, io