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Non ho mai partecipato (racconto)

Da Lundici @lundici_it

Il mondo è costellato di delitti. Nei secoli i pazzi hanno mietuto molte vittime e i sani hanno fatto lo stesso. Lo testimoniano le vicende di Breivik e di Adam Lanza, ragazzi particolari, strani, emarginati, repressi ma mentalmente e clinicamente sani. Il testo che segue è la confessione di uno dei tanti sani che, come loro, ha commesso lo stesso male.

Non ho molta dimestichezza con la partecipazione. Credo nell’individuo e la collettività mi ha sempre creato imbarazzi. Vedo il lato malmostoso della grande massa, io sono malmostoso e mi si parano di fronte solo le crepe che dividono gli uomini. Ogni ammasso di persone mi sembra sempre qualcosa di negativo. Come quando prendo il treno. Era qualche anno fa. Salii sul treno, lasciandomi, dietro, il cemento impasticciato di nero catrame e alcune sedimentate cicche di tumore arroventate per terra, fui investito dal solito ingolfo di puzza che tempestava il diretto Napoli-Roma, l’olezzo che in quegli anni era diventato familiare a causa della mia vita di pendolare e che mi si stringeva sempre alle narici. Che puzzo era? Un misto di resti di mangime per polli, scatole rivestite di senape, corpi di pane addentato, e detriti di altra derivazione non comune, accompagnati da un’accozzaglia di fragore malarico regalato da

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pelli di varia natura, e colore, colore di cenere e sporco, e strati di cartilagine superficiale di bianchi, neri, cingalesi, indiani, cinesi, che offrivano alle carrozze della Napoli-Roma tutto il mondo dentro una bolla d’aria, marrone e putrida, e poi i cessi, le cui porte si dondolavano ad ogni fermata e ad ogni matematico stridio di freni, ed era allora che il respiro si otturava, si otturava con l’ossigeno imbottito di fetore di feci, a strappi, satolli di lerciume, e poi ovunque, in carrozza, al delimitare del confine tra il cesso e lo scompartimento, sfilacciamenti di carta igienica levigata da qualche tumidezza o da liquido battezzato come sperma o pellicole rosse di un periodo mestruale. L’odore si mischiava all’aria, trafitta dal passaggio del treno, la quale entrava a rasoiate secche nella carrozza, mentre un grumo di persone si accalcava assiepata di fronte allo sportello colloso, avvinghiato al pavimento da qualche accidenti di fermo. Io me ne stavo fiducioso e fortunato, seduto così, dopo aver trovato il posto, coscienzioso di essere tra i primi ad entrare in quella paccottiglia di pelli, ferri e uomini che era il Napoli-Roma. Una Casbah mobile su binari costruiti almeno sessant’anni prima, alla faccia di ogni promessa di rinnovamento spiattellata da un politico di pappagorgia che sembrava bollito di grasso.

Anche la mia infanzia è complice della mia avversione alla partecipazione. Credevo di guarire col rintoccare degli anni, credevo di riuscire a farcela, ma fin dall’inizio un muro senza cemento armato ma oltremodo solido mi impediva di partecipare. Sono stato sempre un bambino che quando la maestra gridava alla classe c’è una gita, io mi rivoltavo con gli occhi sotto il banco, fingendo di raccogliere una matita mentre le urla feroci ed insinuanti dei miei compagni di classe fracassavano le mie orecchie e intessevano la gioia dei loro ricordi futuri di bambini sereni e vincenti. Io no, oddio forse gli altri recitavano, ma io no, non ero felice di andare in gita, di lasciare le mie comodità, la mamma, e la gatta.

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Ero terrorizzato a lasciare la mia casa, perché avrei dovuto essere contento? In fondo prendi una gita con mocciosi che si scaccolano per tutto il tempo e poi la cattiveria di quegli anni, di bimbi sempre pronti a farti sentire in imbarazzo, di piccole ed elemosiniere prime cotte tra bambini. Io non volevo l’amore all’età di otto anni, che m’importava di prendere per mano una cazzo di bambina fetida con le lentiggini e con le prime accozzaglie di malizia. Piacevo ad una bambina dell’altra classe, quella con cui ci saremmo accoppiati per andare in gita ed ero diventato mio malgrado una superstar nel padiglione dove si situavano almeno cinque classi di caccolosi delle elementari. Arrivavo a scuola e sentivo dapprima brusii, poi lamentazioni varie sulla mia indifferenza e poi l’esplosione delle bambine che circondavano la piccola che avrebbe voluto che io diventassi il suo ragazzo. Ragazzo? Avevamo otto anni e già queste piccolissime vagine pensavano all’amore. Ma si può? I genitori che cosa ci sono a fare se non spiegano agli infanti che tutto è perduto se non vivi l’età che hai. E quelle tutte vogliose, urletti vari che sibilavano il mio nome nel padiglione alle otto del mattino, quando arrivavo a scuola, come a spingermi nelle braccia della bambina per cui facevano il tifo. E poi le ambasciate, le più odiose. Lo sai che piaci a quella della terza E, lo sai che mi hanno detto che è innamorata di te. Innamorata? Che cazzo non lo sopportavo, ma che si può sapere ad otto anni dell’amore, o forse già si può sapere tutto o quanto basta ma a me non importava e millantavo malesseri oppure scuse improbabili, e ancora tutti i maschi della mia classe che mi guardavano invidiosi, se al tuo posto potessi esserci io.

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Avrete capito che più di un certo grado di normalità io non riesco ad averlo, anzi non mi sento a mio agio con essa tuttavia alcune volte vorrei esserlo, vorrei proprio decidermi a diventare come tutti gli altri, a non pensare continuamente alla mia situazione del momento e a viverla. Se io fossi stato normale magari mi sarei messo insieme a quella ragazzina, le avrei forse messo la mia prima lingua in bocca, oppure le avrei sussurrato parole all’orecchio del tipo sei il mio piccolo cuoricino e tutte, non solo lei, sarebbero cadute ai miei piedi. Invece mi ostinai nella mia solita corazza del diverso, non volevo la fama né tanto meno l’attrazione concentrata su me stesso. E certo che nell’epoca in cui sono nato e cresciuto rinunciare a quel po’ di briciole che dà la notorietà, sebbene in un misero padiglione di una scuola elementare, è considerato un cosa da scemi o quanto meno da matti, diversi appunto.

Ora che mi costringete a pensarci, ora che un giudice mi ha rinchiuso qui per avere fatto una strage sul treno con ottanta bambini, ci rifletto su e credo che la partecipazione sarebbe stata una giusta necessità per ovviare alle mie tendenze omicide. Cosa faccio ora per redimere quello che ho combinato? Quello che definivo il gioioso macello della mia mente tradotto in pura, vera, tattile realtà? Non so bene,  sto in carcere, ascolto i Godspeed you, Black Emperor e leggo una biografia su Mladic, il macellaio serbo. Partecipo così del suo misfatto e così lo metto al confronto col mio. Siamo entrambi innocenti, nel nostro mondo noi lo siamo.


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