Irlanda, 15 Novembre 2012.
Savita Halappanavar è la 31enne irlandese di origini indiane il cui caso ha riacceso i dibattiti in materia di interruzione di gravidanza. La giovane donna era alla 17esima settimana e aveva più volte chiesto la possibilità di abortire, aveva più volte descritto dei malesseri che l’avrebbero comunque condotta ad un aborto. Dolori vari, soprattutto alla schiena, molto forti che l’avevano fatta insospettire.
La risposta dei medici però è sempre stata negativa, “siamo in un Paese cattolico e fintanto che il cuore del feto batte, noi non possiamo fare niente“. Aborto negato per motivi religiosi, dunque. Savita ha ripetuto più volte che lei non era né irlandese né cattolica, ma questo non è servito.
La giovane donna è morta di setticemia (un’infezione sanguigna, N.d.R.) a una settimana dal ricovero, il 28 Ottobre. Il feto era stato asportato il 23 Ottobre, dopo che il suo cuore aveva smesso di battere, proprio come prescrive la legge irlandese.
L’ospedale ha richiesto l’apertura di un’indagine che inizierà non appena sarà possibile parlare con i parenti di Savita, che al momento sono in India per celebrare i funerali tradizionali.
Il caso di Savita Halappanavar sta riaprendo quella frattura sul fronte dell’aborto che si risana in maniera temporanea di tanto in tanto. La possibilità di abortire non è negata dalla legge cattolica dell’Irlanda del Nord, ma solo nel caso questo intervento possa salvare la vita della madre. Ciò non toglie che in casi limite, come si può definire quello della 31enne Savita, si debba concepire un cosiddetto “strappo alla regola“, onde evitare che si arrivi a una tragedia simile. Volendo salvare un feto a rischio si è persa anche la madre.
Chi si salva? Forse solo il moralismo dei “ben pensanti”.
Veronica Sgobio