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Non leggete quel Giornale!

Creato il 09 novembre 2010 da Abattoir

di Donatella Zappini

“Gli italiani che non hanno rinunciato all’appellativo di uomini si uniscano al di sopra delle fazioni, al di sopra dei partiti, al di sopra delle divisioni interessate e volute, al di sopra dell’ormai superato, in disuso e troppo a lungo sfruttato fascismo e antifascismo, si uniscano per dire sì alla libertà dell’ordine. Questa dimostrazione, questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell’Italia, e insieme lo faremo. Viva l’Italia!”

Comincia così “Sbatti il mostro in prima pagina”, film di Marco Bellocchio del 1972. Con un giovanissimo La Russa (per fortuna ha tagliato i capelli e la barba, giuro che mi ha messo paura) durante un comizio a Milano della Maggioranza Silenziosa* che invita a superare l’opposizione abusata fascismo/antifascismo e a combattere contro il male della società, il comunismo. Ma immagini reali sono anche quelle del funerale di Giangiacomo Feltrinelli e degli scontri fra i militanti di sinistra e la polizia.

Pezzi di storia rubati alla realtà, dunque, che danno avvio al film di Bellocchio. Nonostante i suoi quasi 40 anni, illumina in maniera straordinaria quella che è la realtà di oggi. L’uso e l’abuso dei giornali per scopi politici. E protagonista è proprio un fittizio “Giornale” (pensate un po’, quello reale che tutti conosciamo verrà fondato solo due anni dopo il film), in cui il capo-redattore sfrutta l’omicidio di una ragazza per dare la colpa a un militante di sinistra e strumentalizzare l’accaduto politicamente, a vantaggio della destra in periodo di elezioni.

L’interpretazione di Gian Maria Volontè, nei panni del capo-redattore Bizanti, è perfetta: è riuscito a suscitare in me quello sdegno e quell’indignazione che provo quando vedo i nostri “Bizanti” di oggi in tv, o quando leggo masochisticamente i loro articoli. E Bizanti ci dà lezioni di giornalismo. Per distrarre l’opinione pubblica dagli scandali in cui viene coinvolta la destra, bisogna puntare l’attenzione sul clima di violenza e di odio che i comunistelli diffondono nella società con gli scontri con la polizia (non vi ricorda, fra i tanti episodi, l’attentato a Belpietro di qualche settimana fa?).

E la lezione di Bizanti al giovane e ingenuo Roveda è una lezione per tutti: il lettore medio è un uomo che produce e ha i suoi problemi personali, mica si può sentire in colpa per quello che succede agli altri! Apre il giornale per trovare una parola serena, equilibrata e non ci può di certo trovare un titolo come questo “Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli”. È meglio scrivere “drammatico suicidio di un immigrato” (calabrese!), termine, quello di “immigrato”, che contiene in sé l’informazione “padre di cinque figli disoccupato”. Il lettore ha così le informazioni che gli servono nel titolo, lasciandolo libero di approfondire la notizia senza “avere la senzazione che gli vogliamo rompere i coglioni, senza sentirsi lui responsabile di tutti i morti che ci sono ogni giorno nel mondo”. E no, non si usa la parola “licenziato”, ma è meglio se diciamo che è “rimasto senza lavoro”.

Squallido e quasi maniacale poi è il servizio fotografico nella camera della ragazza uccisa, addirittura con il fratellino seduto sul letto. Tanto maniacale che mi ricorda quelli dei nostri giorni, anche se a 40 anni di distanza, noi le cose le sappiamo fare meglio di quanto Bellocchio avesse immaginato: mica delle insulse foto, oggi noi portiamo la famiglia in diretta tv, il suo dolore, le sue lacrime, gli annunci in diretta della morte. E occupiamo non solo le prime pagine dei maggiori quotidiani, ma tutto il palinsesto televisivo.

Usare e manipolare le parole è quello che Bizanti insegna, ed è quello che tanti hanno imparato a fare sui nostri giornali. Ma ovviamente non si limita solo a manipolare la lingua, no, quello non basta. Bisogna manipolare anche le persone, i fatti. Se le mamme italiane vogliono piangere, noi le facciamo piangere e se c’è qualcuno che invoca la pena di morte per l’assassinio di una ragazza bisogna dargli voce, ma stando sempre attenti perché è un’arma a doppio taglio: un giorno vogliono la pena di morte e il giorno dopo manifestano per la sua abolizione, gli italiani hanno buon cuore“.

E bisogna saltare dentro ai fatti, contribuendo attivamente alla ricerca della “verità”: bisogna scovare “il mostro” e consegnarlo in pasto al pubblico, prima delle elezioni, per far contenti gli “amici” e non far calare la tensione.

E poi la scena più cinica in assoluto del film. Quando dinanzi alla tv, Bizanti dice alla propria moglie:

“Tu lo sai che sei peggio di quei fessi che leggono il giornale come se fosse il vangelo? E’ possibile che tu debba restare nonostante tutto, nonostante le tue amicizie, i tuoi soldi, il fatto che sei mia moglie, che tu debba restare con la mentalità della moglie di uno statale. Il fatto è che non solo sei cretina tu, ma mi rincretinisci anche il figlio. Ma lo vuoi capire che dalla moglie del responsabile di uno dei più qualificati giornali italiani si pretenderebbe una mentalità un pochino più evoluta di quella del suo lettore medio. Quando comincerai a capire il mondo? A capire la differenze che c’è fra quello che si pensa e quello che si dice? Sei una cvetina, una cvetina, una cvetina.”

Una moglie simbolo di tutte quelle persone che pensano di sapere tutto del mondo, di sapere come sono andati i fatti, di sapere la “verità” perché lo ha detto la tv. E se lo dice la tv o lo scrivono i giornali allora deve essere vero: oggi è la televisione che certifica la realtà. Tanto a chi importa se l’assassino è quello o meno. A chi importa se un innocente viene sbattuto su tutte le pagine dei giornali e indicato come il “mostro”. L’importante è che al pubblico si dia quello che vuole. Il resto si può, anzi si deve tenere nascosto. D’altronde ciascuno deve stare al suo posto, soprattutto il posto della stampa è quello “di persuadere la gente a pensarla come vogliamo noi”.

La scena finale del film è emblematica. Un fiume che scorre lungo la città, pieno di immondizia: una metafora della società, del mondo politico e di quello giornalistico, dominati dalla corruzione, dall’ipocrisia, dalla falsità e dall’arrivismo. Quarant’anni fa Bellocchio rappresentava questa metafora con un fiume. Un fiume che scorre e trascina con sé i mali della società. Quell’immagine mal si adatta però ai nostri giorni: non c’è più nessun fiume che scorre sotto l’immondizia che ricopre le nostre strada e il nostro Paese. C’è solo l’immondizia. E la corruzione.

*movimento al quale parteciparono molti esponenti della destra democristiana, guidati da Massimo De Carolis, durante i primi anni ‘70


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