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Non si fa quello che serve o che si vuole, ma quello che conviene

Creato il 22 febbraio 2012 da Fabio1983
Intervengo, anche se leggermente in ritardo, nel consueto dibattito post Sanremo. Sul tema ci sarebbe da sottoscrivere punto per punto, riga per riga, quanto lamentato da Cesare Picco, ieri, sul Post.
In Italia non si ama la musica, si dice di amarla. È diverso. La musica in Italia è come una puttana abusata e sfruttata da tutti, vittima da decenni di piccoli stupri giornalieri che non hanno mai fatto notizia: perché è la musica, in fondo, a non interessare alcuno. La musica è l’Italia: meravigliosa, insostituibile, unica al mondo, piena di tesori. Salvo pensare questo mentre buttiamo la plastica nel vetro e prendiamo l’auto per andare a comprare il pane senza farci fare lo scontrino.

Tra le varie litanie ascoltate in queste ore, ma sarebbe meglio dire da tre anni a questa parte, c’è quella secondo cui Sanremo si sarebbe trasformato in una costola dei talent show e in particolare di Amici, se si fa eccezione dell’anno scorso con la vittoria di Roberto Vecchioni. Naturalmente ciò è vero, è davanti agli occhi di tutti. Ma analizzando gli ultimi dieci-venti anni è corretto sostenere che i reality in chiave artistica sono il male della nostra musica? Quanti mostri sacri – prima dell’avvento dei programmi figli direttamente o indirettamente della De Filippi – ha partorito il panorama musicale italiano? Siamo sinceri: pochi. E le regioni sono da ricercarsi tutte, una ad una, tra le cose scritte da Picco: mancanza di scuole, amore per la musica condizionato dalle canzonette, le major (aggiungo io) e bla bla bla vari. I reality sono un problema infinitesimale rispetto al ritardo culturale del nostro Paese. Però hanno una loro responsabilità, quella cioè di ingessare ulteriormente un mercato già bloccato di suo. E il mercato in Italia – qui è il grande paradosso nostrano – non lo fa la domanda, ma l’offerta. Anche nel cinema è così, come ha spiegato il regista Emiliano Corapi intervistato da Giampiero Francesca per T-Mag.
Un mercato con pochi interlocutori, mi riferisco ovviamente ai distributori, è un mercato limitato. E questo si, è un problema. Manca una vera concorrenza. E’ come se, di fatto, i tre, quattro grandi distributori italiani decidessero loro quali film verranno prodotti. Così, finiscono per essere realizzati solo film che, prima ancora della produzione, hanno un accordo per la distribuzione in sala. E’ un po’ un circolo vizioso, in cui i grandi circoli degli esercenti, le poche distribuzioni e le produzioni finiscono per partecipare alle stesso limitatissimo mercato. È inutile stare a sottolineare come, se si riuscisse ad uscire da questa logica, sarebbe sicuramente meglio per tutti.

Che poi, a ben vedere, è la storia recente del Paese. Non si fa quello che serve o che si vuole, ma quello che conviene.

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