Il DISPREZZO DELLA VITA NON PUO’ IGNORARE LA SALVEZZA DELL’ANIMA
di Ninnj Di Stefano Busà
Vi sono momenti in cui la realtà c’inchioda al nostro ruolo di nomadi, in cui percepiamo più forte il senso, forse anche il pericolo del nostro essere precari nel mondo, di questa solitudine estrema che ci rende estranei a noi stessi, prima ancora che agli altri.
La riflessione sul tema ci scuote, ci fa chiedere chi siamo? che cosa rimarrà di noi? cosa resisterà di questo nostro peregrinare sulla terra?
La percezione di questo travagliato itinere ci spinge ad analizzare le regole del gioco, la partita aperta con la nostra vita, con l’esistente quotidiano, con l’apertura di un quid, al di là delle nostre frontiere percettibili, delle nostre vaghezze o sostanziali momenti di vita, tra ciò che vale e non vale la pena di vivere,
Diventa perciò, sostanziale il concetto di saper dare una risposta ai ns. quesiti in tempi brevi, perché il nostro soggiorno sulla terra non è infinito, subisce variazioni da individuo ad individuo, ma non è eterno, Così possiamo intravedere tutte le stoltezze, gli inganni, le devianze che caratterizzano il percorso umano in una dimensione di “passaggio”. Noi transitiamo, noi attraversiamo il pianeta-terra, lo abitiamo, abitiamo i nostri sensi, vivifichiamo i nostri bisogni, alimentiamo le speranze, i sogni in una nuvola fumosa di esistenza che ci rende a volte una dimora diroccata, violata dai venti e dalle tempeste, altre volte appena una parabola che ci consente il ravvedimento, l’analisi della ragione, il presupposto della saggezza in termini di perdenza e di salvezza.
Vi sono uomini che costruiscono la loro casa sulla sabbia, sicché un temporale o i forti venti la inabissano, la riducono in un cumulo di rovine, di polvere.
La stabilità o meno dell’individuo sta nella sua forza morale e soprattutto, nella sua saggezza. Da una lettura più approfondita dei saggi, l’individuo può paragonare le capacità di fondo in cui giace, la possibilità di resistere agli assalti del male, contrapporsi alla fragilità della condizione umana, ai limiti materici che la sviliscono, la condizionano, lo può fare con la forza dell’intelligenza, dell’equilibrio e della logica di giudizio, con la pratica quotidiana degli insegnamenti cristiani, (senza essere bacchettoni si può) entrare nell’ordine di idee di rispettare l’altrui, di attuare i comandamenti cristiani, le regole morali e comportamentali dell’umanità senza trascendere in malafede, in corruzione, in iniquità, in malvagità.
Allora, si può dedurre che se vogliamo dare ala nostra vita un riflesso di eternità, di compostezza e armonia, dobbiamo partire dal cuore, dall’amore cristiano, dalla dimensione più elevata e spirituale, dalla consapevolezza di ciò che è giusto probo e leale. Ciò che può rendere saldi i principi di una coscienza, di sua necessità, deve partire e scaturire da concetti nobili, limpidi, sereni, non sviliti dal consuntivo perverso di un “fare” che si allontani da Dio, non deve esimersi dal contrapporsi ad azioni malvage, che sperimentino le sregolatezze e i vizi, sovvertendo l’ordine e la profondità di buoni principi e della coscienza. La lotta è ìmpari, la vita ci allestisce piatti sempre più succulenti di perfidia e di inganni, col rischio di farci precipitare sempre più in basso nel baratro fondo del peccato. Al centro della nostra Apocalisse si pone il senso della Storia, la fedeltà ad un Ente superiore, ad un Vangelo che parli la lingua di tutti, che ci ami e ci consoli nelle avversità, ci dia una mano a non allontanarci dal giusto, la cui defezione può diventare il dramma della nostra esistenza.