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Non solo Amarone

Da Trentinowine

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Leggo su Internet Gourmet le dichiarazioni di un viticoltore, e parecchio altro, di origine trentina, che tuttavia coltiva interessi, e la vigna, in molte aree del Nord Est, Valpolicella compresa. Leggo e tiro un sospiro di sollievo. Amaro, ma pur sempre un sospiro e un sollievo: almeno qualcuno la pensa come me. Il viticoltore racconta dello sconforto di chi, come lui, è rimasto quasi senza voce a difendere la vendemmia 2014.
Confessa Albino Armani: “Questa comunicazione precoce di un disastro – mette nelle condizioni quei pochi fortunati, o forse capaci, a produrre uve di buona qualità, di sentirsi cantine di serie B. (…) Sento molto scoramento in Valpolicella, troppo. Alcuni agricoltori stanno mollando la spugna disperati, magari con dell’uva ancora bella ma, dicono, non se la sentono di rischiare. Dover giustificare la propria uva, sentirsi inadeguati e quasi colpevoli per il solo fatto di provarci non lo trovo giusto”.

Un paradosso: doversi prendere la briga di giustificare un buon lavoro. Un lavoro fatto bene. E’ la metafora di un’Italia a testa in giù. O a gambe in su.

Ripenso a quello che ho scritto, a più riprese, nelle settimane scorse su questo blog (1, 2, 3): attenzione a buttare la croce addosso a questa maledetta vendemmia 2014. Perché non è giusto far pagare ai soliti noti, noti per essere senza voce perché estranei al circo e al cortocircuito mediatico, il prezzo del maltempo e di una vendemmia difficile ma non disastrosa ovunque. E attenti ché se c’è chi ci perde (i soliti noti senza voce), c’è anche chi ci guadagna. Queste cose le ho scritte in tempi non sospetti. Anche se non tutti hanno dimostrato di apprezzare. E qualcuno mi ha espressamente suggerito di tornare con i piedi per terra e di unirmi al coro dei fustigatori vendemmiali e dei plauditores di quei quattro marchi che in Valpolicella hanno deciso di rinunziare all’Amarone (Bertani Domains, Romano Dal Forno e qualche marchio minore, per ora).
Non aggiungo nulla alle parole di Armani. Ma provo ad aggiungere, per portare qualche elemento forse utile al dibattito, qualche riflessione.

Si è detto e scritto e ripetuto fino alla nausea, in queste settimane, che la scelta rinunciataria dei grandi grandi amaronisti (non tutti) sia stata una scelta di trasparenza e di onestà verso i consumatori. Sarà. Ma io qui di trasparente non ci vedo un bel niente. E come ho già avuto modo di scrivere, a me questa decisione non piace nemmeno un po’. La dico tutta: mi è sembrata, e continua a sembrarmi, una scelta irresponsabile. Irresponsabile verso il territorio e verso la denominazione collettiva. La ricaduta mediatica di queste decisioni, che arrivano da grandi brand commerciali ben strutturati, sono cadute come una sciagura sull’intera valle: sui produttori di uve, sui conferitori e su quelli che quest’anno un po’ di uva buona ce l’hanno. E ci vogliono provare. Vogliono provare a mettere le mani in pasta, come hanno sempre fatto. Perché questo è il loro mestiere da sempre: lavorare con quello che c’è. Con la materia prima che c’è. Perché il vino (Amarone e Ripasso, included), non è vino solo quando è figlio di un’ottima annata. Troppo facile, troppo semplice. Buoni tutti. E’ vino sempre, anche quando l’annata non sembra ottima. Ma magari, chi lo sa, ottima lo diventerà. E quelli che, invece, le mani in pasta non ce le mettono (per tante e perfino troppo scoperte motivazioni) assomigliano a quei bambini che quando perdono la palla, non giocano più e corrono a piagnucolare da mammà. A questi io preferisco quelli che ci provano. E che tuttavia, ora, in questo Paese delle Meraviglie a testa in giù e a gambe in su, ora si ritrovano nella condizione paradossale, di doversi giustificare del loro buon lavoro e dei loro buone uve.

Non credo che il futuro di un territorio, in questo caso della Valpolicella, passi da qui, dalle agili fughe in avanti di pochi e dalle facili di operazioni marketing di alcuni. E non capisco le ragioni di chi, forse anche in buona fede, tira in ballo valori come trasparenza, onestà e coerenza.
Questi sono valori che si costruiscono, sono modalità dell’agire imprenditoriale e sociale che si solidificano collettivamente e partendo dal basso; coinvolgendo tutti gli attori della filiera e il contesto di riferimento, a partire dalla politica locale e da tutti i soggetti che agiscono il territorio. Sono valori che non possono, per loro natura, essere esclusivamente patrimonio individuale di qualche illuminato che corre in avanti e davanti a tutti. Questi valori, per essere valori, devono essere figliati da strumenti collettivi e da sensibilità collettive e di contesto.

E siccome, me ne rendo conto, rischio di apparire vagamente astratto. Provo ad entrare nel concreto.
Intanto, sono convinto, che anche in Valpolicella – come del resto in altri territori a partire dal Trentino -, sia arrivato il momento di discutere seriamente di zonazione. E quando scrivo seriamente intendo dire che lo si deve fare con l’intenzione di arrivare fino in fondo e senza giocare. Si tratta di mettere in campo un’azione disciplinare e formale che riconosca finalmente – questa sì sarebbe trasparenza – la differenza sostanziale fra il fondovalle, dove per altro oggi si concentrano i maggiori interessi economici (il Trentino insegna) e le zone collinari. Qui sta uno dei noccioli della questione. Il resto, le fughe in avanti di quelle delle Grandi Annate, sono accidenti. Non sostanza. Non la sostanza. Sono divagazioni e distrazioni. Che non risolvono nulla. E procurano solo guai.

Ma non c’è solo la questione della zonazione. Che rimane prioritaria.

Nelle settimane scorse, sulla spinta delle difficoltà vendemmiali e quindi dell’emergenza, il Consorzio ha compiuto una scelta saggia e lodevole. La riduzione drastica delle uve da mettere a riposo. Il che, tradotto, significa meno Amarone e di conseguenza meno Ripasso. Vino, quest’ultimo, che pur essendo considerato all’estero, come qualcuno mi ha ricordato l’altro giorno, “L’Amarone dei poveri”, è il vino su cui si concentrano i grandi e più significativi volumi. Il vero business, sta qui.

Per questo la scelta riduttiva del consorzio è stata coraggiosa. Un unicum, forse, in Italia. Perché, al di là della spinta emergenziale di quest’anno, rivisita in maniera onesta e, questa volta sì trasparente, la composizione e l’equilibrio della produzione vinicola veronese. E riapre spazi, importanti, per un altro vino, che negli ultimi anni, ha avuto purtroppo, ma comprensibilmente viste le spinte aggressive di Amarone e Ripasso, un andamento carsico: il Valpolicella. Il vino fresco della valle. E’ qui che forse, si gioca e si giocherà, il futuro della Valpolicella. In questo vino che si porta appresso il nome della valle e del territorio.
La riduzione al 35 % delle uve da mettere a riposo, decisa in ambito consortile per il 2014, fa chiarezza in questa fase emergenziale. Ma potrebbe fare chiarezza anche nel medio lungo periodo: perché non immaginare, infatti, ad una misura strutturale che stabilizzi su questi livelli, il 35 %, le masse di materia prima da destinare al grande vino da invecchiamento. E lasciare spazio, quindi, al vino fresco, al Valpolicella. Questa sarebbe trasparenza. Perché farebbe finalmente chiarezza su un punto: ovvero che non tutte le uve, e sempre, sono uve da grande vini (Amarone e Amarone dei poveri). Significherebbe ammettere, chiaramente e non solo sulla carta, sul web e nei comizi, che non tutte le uve valpolicellesi possono permettersi un grande destino.
Ma qui entrano in campo una serie infinita di questioni. Il territorio è pronto? E’ pronto a rimodulare il suo profilo? E’ pronto a riequilibrare le sue denominazioni? E’ pronto, a dire chiaramente e a darne prova con i fatti – e non con le spericolate fughe in avanti dei grandi brand commerciali -, che non sempre, e non tutte, e non dappertutto, le uve sono performative? Sono pronte le aziende a reintrodurre in linea stabilmente e strutturalmente il Valpolicella, salvandolo dal destino carsico a cui è stato relegato in questi anni?
Forse, il dibattito, dentro il Consorzio e anche fuori, potrebbe ripartire da qui. Forse. E questa sarebbe, forse, trasparenza. Forse.


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