Magazine Diario personale

Non sta succedendo anche a te?

Da Matteotelara

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La maschera l’ho appesa lì perché mi è sempre sembrata viva.
L’ho appesa poco dopo esserci trasferiti. Eravamo sommersi da scatoloni e imballaggi, e la casa pareva talmente spenta, con tutte quelle file vuote di scaffali ad arrampicarsi fino al soffitto.
È stata la prima cosa a saltar fuori dagli imballaggi. Prima ancora dei vestiti, prima ancora delle pentole o dei quadri o delle antichità.
“Per lei voglio un posto speciale” ha detto mia moglie vedendomi posarla sul pavimento.
Poi non è successo più nulla. Nel senso che c’eravamo noi due, che poi è come dire che non succedeva nulla. Noi che posizionavamo oggetti e svuotavamo cartoni metodici e concentrati come professionisti del disimballaggio. Noi che parlavamo di quel tanto sufficiente a ricordarci d’essere ancora lì, e d’esserci insieme.
“Cucino lasagne per cena” le avevo sentito mormorare, mentre continuavo ad ammucchiare cose sul pavimento.
Non avrei saputo dire a chi si stava realmente rivolgendo.

L’ho appesa accanto alla libreria, di fianco ad alcuni volumi di quando ero ancora studente. Libri che mi portavo dietro mentre giravo per l’Europa in treno, testi che da anni non riprendevo tra le mani.
Ecco cosa leggevo un tempo mi sono detto estraendoli dai cartoni. Ho girato la copertina di un tascabile e mi sono messo a guardarlo, mentre mia moglie, di ritorno dalla cucina, stava organizzando la sezione centrale della libreria.
“Un classico”.
“Cosa?”
“Il lupo della steppa” ho detto, “non c’è studente che non se ne sia innamorato”. Stavo curiosando nella biografia dell’autore. “Ma non mi ricordo più la storia” ho aggiunto, scorrendo con le dita sulla quarta di copertina. “Non mi ricordo più neppure che tipo di scrittore fosse Hesse”. E ho posato il libro insieme agli altri: erano Kerouac, Ginsberg, Verlaine, Bukovski, Burroughs, biografie varie di poeti morti a trent’anni o che non erano mai arrivati a compierli.
“E dove li vuoi mettere?”
“In che senso?”
“Nel senso di dove li vuoi mettere”.
“Nella libreria.”
“Questa?”
Mia moglie ha continuato a tirar fuori i propri volumi da uno degli scatoloni. “Mi chiedo fino a che punto quei libri ancora ti rappresentino”.
Avevo appena preso in mano una raccolta di poesie di James Douglas Morrison. “Non saprei dire cosa davvero mi rappresenti”.
“Bè, forse dovresti cominciare a rifletterci”.
E in quell’istante ho realizzato che le donne sanno traslocare meglio degli uomini. E che una donna che arreda una casa nuova, è una donna che sa perfettamente quello che sta facendo.

Quella sera mangiammo lasagne al forno seduti per terra, davanti a una libreria per metà già finita. Avevo posizionato gran parte dei miei libri in direzione parete, accanto alla maschera.
“Mi piace il luogo che hai scelto per appenderla” aveva detto lei, mentre prendeva uno dei suoi volumi dallo scaffale e cominciava a sfogliarlo. “Come se fosse la guardiana delle nostre letture”.
Aveva sorriso. “Questo posto comincia ad appartenerci”.
Non credo ci sia uomo capace di comprendere il significato di tali parole, quando è una donna a pronunciarle.

E questo è quello che ho cominciato a notare.
Le mie letture sono cambiate.
Niente di strano, direte, “cose normali”.
Ma non è dei libri di quando ero ancora studente che sto parlando.
Ho cominciato col passare sempre più spesso e con sempre minore casualità davanti a certi libri. Volumi a cui in passato non avrei fatto caso. Cose di cui ignoravo l’esistenza. Manuali su civiltà sepolte, saggi su religioni scomparse, ipotesi su forme di vita alternative a quella terrestre. Poi ho iniziato a prenderli tra le mani e di tanto in tanto, addirittura, a sfogliarli, a consultarli. Tutte cose di cui un tempo ridevo. Libri a cui la mia compagna aveva fin dal principio rinunciato a farmi appassionare. Mi sono messo a leggerli. E sempre con quell’impressione d’occhi semichiusi ad azionare certi processi, di una presenza occulta, di un’ombra muta e onnipresente a veicolare le mie scelte.
‘Che stupidaggine, appendere qualcosa di vivo in un luogo così felicemente avviato verso la morte’ mi sono scoperto a ragionare, osservando il nostro soggiorno. Al punto che ho persino considerato l’ipotesi di parlarne con lei, con mia moglie. Ma il pensiero che mi avrebbe detto amore, “amore” avrebbe detto, “ma cosa ti salta in mente?”, mi ha bloccato.
Mia moglie mi avrebbe spiegato, con tono divertito e con un tocco di tralasciato compatimento, che le maschere non decidono un bel niente. “Soprattutto non quella” avrebbe detto, “che è roba da turisti, che l’ho comprata al duty free dell’aeroporto e che se guardi bene sul retro, lo vedi?, puoi ancora leggere l’etichetta Made in Cina”.
Mi avrebbe detto che non c’è nessun tentativo di controllo ipnotico, nessun potere occulto, niente che stia subdolamente determinando le mie scelte. Nulla che stia tramando per cambiarmi. E che è normale, ‘cambiare le proprie letture’.
Eppure mi domando se non sia il caso di rimuovere la maschera da quella parete. Di trasferirla altrove, nel ripostiglio, nel corridoio, nella stanza degli ospiti.
La maschera, ho pensato, che vada ad osservare la libreria di qualcun altro.
Volevo dirglielo, a mia moglie. Dirle che c’era qualcosa che non andava, dirle non sta succedendo anche a te? Dirle: “sento di non essere più in controllo della mia vita”.
Ma già sapevo che avrebbe sorriso.
Non essere sciocco amore.
“Alle volte” avrebbe detto “ragioni ancora come un bambino”.


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