“Non stuzzicar il can che dorme” è un proverbio che suggerisce di non approfittare mai dell’apparente momentanea cordialità altrui per evitare possibili, spiacevoli sorprese. Di questo proverbio pare non abbia tenuto conto il Presidente del Consiglio, Mario Monti, accusato da più parti di aver rilasciato un’intervista al quotidiano austriaco Kurier nella quale compaiono affermazioni sulla scarsa attualità della funzione di tutela esercitata dall’Austria nei confronti dello Statuto d’Autonomia. Il caso merita senz’altro un approfondimento e conviene rifarci direttamente al testo.
Helmuth Brandstätter, il direttore del Kurier, ha posto questa precisa domanda: “L’Austria è la cosiddetta potenza tutrice dei sudtirolesi nei confronti dell’Italia. Pensa che tale funzione sia ancora attuale all’interno della cornice dell’Unione europea”? Monti ha risposto: “Io penso che, siccome il conflitto [tra Italia e Austria, ndr] è stato risolto davanti all’Onu nel 1992, non vi sia più la necessità d’interpretare un simile ruolo da parte dell’Austria. Qui stiamo parlando di problemi interni allo Stato italiano, per i quali non occorre attribuire competenze a Vienna. All’interno della cornice predisposta dalla Costituzione italiana, la provincia di Bolzano ha tutte le possibilità di affermare le proprie posizioni”.
La prima osservazione da fare riguarda il termine un po’ opaco di “tutela”, opacità che infatti sta all’origine non solo di questa particolare ultima controversia, ma del complessivo nodo diplomatico paradossalmente al contempo sciolto e stretto dall’accordo di Parigi del 1946 (chi volesse può consultare a questo proposito l’agile ed esaustiva monografia di Marco Di Ruzza uscita nel 2009 per l’editore Rubbettino, e intitolata per l’appunto “L’Austria e l’Alto Adige. La ‘funzione di tutela’ austriaca verso il Sudtirolo nei rapporti diplomatici Roma-Vienna”). Come interpretare allora una tale funzione di tutela? E quali sono inoltre i suoi limiti in senso giuridico e storico?
L’ordinamento giuridico internazionale attribuisce all’Austria unicamente il diritto di pretendere il rispetto di un accordo che è garantito dalla Costituzione italiana. “Si tratterebbe dunque – scrive in modo opportuno Di Ruzza – di un esercizio di tutela sempre indiretto o ‘mediato’, che nasce quale riflesso dell’essere l’Austria parte di un Trattato di garanzia dell’Autonomia”. In un certo senso è insomma come se all’Austria venisse conferito il potere di “aiutare” l’Italia a svolgere bene i compiti che comunque essa stessa ha provveduto ad assegnarsi. Qui è chiaro che un eventuale problema potrebbe nascere solo se l’Italia quei compiti non riuscisse o non volesse svolgerli, tradendo dunque in primo luogo se stessa e le proprie prerogative. A quel punto – e solo a quel punto – l’Austria sarebbe autorizzata a mettere mano a un campanello d’allarme da far risuonare nelle competenti sedi internazionali.
Chiarito all’ingrosso il senso della tutela, resta da esaminarne meglio i limiti, magari provando a rispondere con maggiore chiarezza alla domanda posta a Monti nell’intervista.
Brandstätter chiedeva se la funzione di tutela austriaca nei confronti del Sudtirolo fosse ancora attuale nella cornice dell’Unione europea. Richiamare la Quietanza liberatoria del 1992, come ha fatto Monti, per dichiarare esaurita, oltre alla tensione conflittuale, anche la validità di una simile funzione, non appare perciò sufficiente, in quanto semmai è proprio alla luce della suddetta Quietanza che la funzione di tutela assume il suo contorno più preciso di un mero campanello d’allarme. Anche se dunque una parziale attualità così permane, proprio sfruttando il richiamo alla cornice europea forse Monti avrebbe potuto aggiungere che soltanto in base a un più compiuto ed effettivo processo d’integrazione continentale, ovviamente da promuovere con maggiore energia di quanto si sia fatto ultimamente, alcuni meccanismi di controllo e sorveglianza reciproca ancora presenti tra i diversi Stati – almeno in relazione alle questioni sorgenti da minoranze “nazionali” da essi “ospitate” – sarebbero destinati a perdere peso.
Per tornare al proverbio dal quale siamo partiti, ciò sarebbe peraltro l’unico modo per lasciare finalmente tranquillo il cane del nazionalismo e le noiose conseguenze che ancora produce.
Corriere dell’Alto Adige, 30 ottobre 2012