Sono trascorsi pochi giorni dall’esecuzione di Reyhaneh Jabbari; ancora è vivo in molti, e in me, il sentimento di sdegno e orrore unito all’ammirazione per la forza di questa donna.
La storia è nota.
Avrebbe potuto evitare l’impiccagione ritirando la denuncia di stupro nei confronti di Marteza Abdolali Sarbandi e quindi la sua versione di legittima difesa, ma lei si è ostinata a urlare la verità. Per il mondo iraniano sarebbe morta comunque, anche se non fisicamente.
Di lei ci resta l’immagine di una donna coraggiosa per la quale la dignità della persona è un valore assoluto, più della vita.
Mi piace ricordarla così
con lo sguardo dritto verso una Corte che la stava giudicando sulla base di una legge assurda e condannando senza porsi alcun ragionevole dubbio.
Una legge insensata per la quale solo i familiari della parte lesa (??!! lo stupratore/assassinato ??!!) possono fermare un’esecuzione con un atto di clemenza, che non c’è stato.
E leggo oggi che la madre di Reyhaneh invita a non colpevolizzare la famiglia Sarbandi per la grazia negata alla figlia! Eh, già! La Legge! Quella Legge è al di sopra di tutto e tutti, unica responsabile, come se fosse un’idea astratta, un “pensiero puro”, un “concetto assoluto” frutto di autocreazione!
Di lei ci resta anche una sorta di testamento, una lettera – stupenda – scritta alla madre lo scorso aprile ma pubblicata in questi giorni da The Huffington Post, comparsa contestualmente su alcuni quotidiani italiani e diffusa in rete.
Cara Sholeh, oggi ho appreso che ora è il mio turno di affrontare la Qisas (la legge del taglione del regime iraniano). Mi ferisce che tu stessa non mi abbia fatto sapere che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non credi avrei dovuto saperlo? Lo sai quanto mi vergogno perché sei triste. Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà?
Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quell’orribile notte io avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che noi non siamo ricchi e potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita soffrendo e vergognandoti e qualche anno dopo saresti morta per questa sofferenza e sarebbe andata così.
Ma con quel maledetto colpo la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da qualche parte ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione d’isolamento. E ora nella prigione-tomba di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti. Tu sai bene che la morte non è la fine della vita.
Tu mi hai insegnato che si arriva in questo mondo per fare esperienza e imparare la lezione e che a ognuno che nasce viene messa una responsabilità sulle spalle. Ho imparato che a volte bisogna lottare. Mi ricordo quando mi dicesti di quel vetturino che si mise a protestare contro l’uomo che mi stava frustando, ma che quello iniziò a dargli la frusta sulla testa e sul viso fino a che non era morto. Tu mi hai detto che per creare un valore si deve perseverare, anche se si muore.
Tu ci hai insegnato, quando andavamo a scuola, che si deve essere una signora di fronte alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto notavi il modo in cui ci comportavamo? La tua esperienza era sbagliata. Quando è accaduto questo incidente, questi insegnamenti non mi hanno aiutato. Essere presentabile in tribunale mi ha fatto apparire come un’assassina a sangue freddo e una spietata criminale. Non ho versato lacrime. Non ho implorato. Non mi sono disperata, perché avevo fiducia nella legge.
Ma sono stata accusata di rimanere indifferente di fronte a un crimine. Lo sai, non uccidevo neanche le zanzare e gettavo via gli scarafaggi prendendoli dalle antenne e ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato come un comportamento mascolino e il giudice non si è neanche preoccupato di tenere in considerazione il fatto che all’epoca dell’incidente avevo le unghie lunghe e laccate.
Quant’è ottimista colui che si aspetta giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai contestato il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, specialmente un pugile. E questo paese per il quale tu hai piantato l’amore in me, non mi ha mai voluto e nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo i termini più volgari. Quando ho perduto il mio ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni in isolamento.
Cara Sholeh, non piangere per ciò che stai sentendo. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia una vecchia agente zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non viene ricercata in quest’epoca. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e della visione e persino la bellezza di una voce dolce.Mia cara madre, la mia ideologia è cambiata e tu non ne sei responsabile. Le mie parole sono eterne e le affido tutte a qualcun altro, in modo che quando verrò giustiziata senza la tua presenza e senza che tu lo sappia, ti vengano consegnate. Ti lascio molto materiale manoscritto come mia eredità.
Però, prima della mia morte voglio qualcosa da te, qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze e in ogni modo possibile. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo paese e da te. So che avrai bisogno di tempo per questo. Perciò ti dirò una parte delle mie volontà presto. Ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere una simile lettera dalla prigione che venga approvata dal direttore della prigione. Perciò dovrai di nuovo soffrire per causa mia. E’ l’unica cosa per la quale, se implorerai, non mi arrabbierò anche se ti ho detto molte volte di non implorare per salvarmi dall’esecuzione.Mia dolce madre, cara Sholeh, l’unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via.
Il mondo non ci ama. Non ha voluto che si compisse il mio destino. E ora mi arrendo a esso e abbraccio la morte. Perché di fronte al tribunale di Dio io accuserò gli ispettori, accuserò l’ispettore Shamlou, accuserò il giudice e i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato mentre ero sveglia e non hanno smesso di minacciarmi. Nel tribunale del creatore accuserò il Dr. Farvandi, accuserò Qassem Shabani e tutti coloro che per ignoranza e con le loro bugie mi hanno fatto del male e hanno calpestato i mie diritti e non hanno prestato attenzione al fatto che a volte ciò che sembra vero è molto diverso dalla realtà.
Cara Sholeh dal cuore tenero, nell’altro mondo siamo tu e io gli accusatori e gli altri gli accusati. Vediamo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.
Reyhaneh
1° Aprile 2014
Ebbene, la sua volontà non è stata rispettata, il suo corpo seppellito e i suoi organi con lei.
Da questo piccolo e ininfluente blog mi piacerebbe, insieme ad altri/e, potermi sentire gli occhi di Reyhaneh. Che possano almeno vedere attraverso le nostre parole, le nostre vite raccontate in un mondo virtuale che molto spesso sa di buono, che con lo scorrere del tempo il suo sacrificio – perché di questo si tratta – non venga ridotto a un mero fatto di cronaca confinato in articoli di taglio basso, che non sbiadisca insieme alla carta dei quotidiani o non si perda nel mare del Weblog.
Che riviva nella voce di altre donne come Asia Bibi, pakistana, cristiana, accusata di blasfemia per avere offeso Maometto, condannata a morte per questo da una Corte d’Appello nel 2010.
45 anni, sposata, madre di cinque figli, il suo desiderio è di rivedere la famiglia riunita, come afferma dignitosamente nella recente lettera scritta a Papa Francesco.
La Corte Suprema può ancora ribaltare la sentenza.
Perciò Amnesty International invita a firmare questo appello rilanciato da Articolo 21 proprio lo scorso 25 ottobre, giorno dell’esecuzione di Reyhaneh.
È un’opportunità da cogliere, una pianta da fare germogliare nei nostri giardini virtuali, onde che si propagano da un sasso gettato nell’acqua, anelli che si moltiplicano.
È come un dialogo morte/vita: occhi che non diventano polvere, cuore che riprende a pulsare.