Forse ero in quarta liceo quando sulla lavagna avevamo fatto un nebuloso brainstorming sui luoghi e i nonluoghi. Quando sei adolescente non capisci mai a cosa ti serve quello che stai imparando. Per la matematica la questione è rimasta la stessa, per altre cose invece no. Se penso al Nonluogo mi viene in mente una specie di deserto bianco, nebbia e sabbia assieme che fanno perdere l’orientamento. Un solo colore, nessuna direzione. Ma il Nonluogo in teoria sarebbe un posto dove passa il flusso dell’umanità senza relazione come supermercati o autostrade. Posti sempre uguali in ogni angolo del mondo dove il viaggiatore sperduto si trova a casa, grazie a un dettaglio che gli è familiare.
Forse, a pensarci bene, il mio Nonluogo del cuore è il ciclismo.
Dopo le giornate frenetiche del Giro, vedere di nuovo le gare dal vivo in Svizzera mi ha dato la sensazione di tornare in famiglia dopo un po’ di tempo. Sulla strada per Bellinzona abbiamo incrociato i ragazzi del Team Europcar che stavano provando il percorso e li abbiamo salutati: due a due, sorridenti, con il sole svizzero in faccia. Basta un ciao in questo mondo dove le lingue che si parlano sono tante ma, alla fine, ci si intende sempre.
Nella cittadina svizzera, i pullman delle squadre si contendono il posto all’ombra, qualche ciclista passa tra i curiosi con la maglia slacciata e lascia dietro di sé il rumore della ruota lenticolare. Qualcuno va a pesare la bicicletta, qualcuno si lamenta con il meccanico. “Io vorrei fare i rulli” dice Cadel Evans, “ma non ho la bici! Qualcuno mi dà una bici?”
C’è il sole estivo che arroventa le tendine sotto le quali i ciclisti pedalano nel vuoto, preparandosi a quel circuito di pochi chilometri. La faccia lucida di sudore, le cuffie nelle orecchie, la testa bassa e la gente che li guarda attenti. Pochissime transenne, poche persone con il fischietto. Il rispetto viene naturale, anche se i campioni sono così vicini che tutti li potrebbero toccare. Qualcuno li chiama e loro rispondono, i bambini li seguono ammirati, vanno e vengono tra partenza e arrivo. Dal pullman Sky scende Bradley Wiggins, sorridente come non l’ho mai visto, si ferma a parlare con un’amica. Tutta la tensione che gli costruiscono addosso per riempire le testate sembra lontana. Non c’è notizia, qui. I corridori sono in mezzo alla gente e il ciclismo è vero. E’ una cosa tra amici, da pane e salame, come è sempre stato e come dovrà rimanere per vivere ancora.
Ci sono quelle cose che riconoscerei in mezzo a tutto: le catenine che luccicano prima del via, il profumo di divise pulite, il rumore sordo delle pedalate sui rulli. Un rumore che sembra avere quasi la potenza di scandire un tempo. Il tempo per essere lì e lasciar stare il resto. Ci sono quelle sensazioni che la pelle riconosce sempre, in ogni posto tu le viva: il boato prima dell’arrivo del campione, la gente attaccata alle transenne che storpia i nomi stranieri, che controlla i numeri delle startlist e che vuole bene sempre anche se quel nome lì non l’ha mai sentito pronunciare. Basta la bicicletta come biglietto da visita.
Non è questo un Nonluogo? Centinaia di persone che si ritrovano assieme senza conoscersi, senza che le loro vite vengano a contatto se non in quell’istante, se non in quelle ore. Le condivideranno così, stretti come una famiglia, vicini eppure sconosciuti. Non è questo, forse? Ritrovare quei particolari in ogni angolo del mondo, ovunque il ciclismo vada, qualunque strada percorra e sentirsi a casa, al proprio posto. Niente più viaggiatori sperduti. Abbiamo questi simboli incisi dentro, li riconosceremmo ovunque. I rumori, i suoni, le voci, i rituali. Sono gli stessi ogni volta e ci rassicurano. La fatica e l’attesa che nel mondo sono piccoli valori impolverati dalla nostra impazienza qui diventano i nostri fari, le cose che restano. Restare assomiglia molto ad amare.