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La macro-traccia è quella che Ringu ha scatenato dal ’98 in avanti, ossia storie di fantasmi raccontate per dilatazione caratterizzate da accumuli di sottile tensione fino alla catarsi piazzata spesso e volentieri nel finale. Questo regista di nome Kôji Shiraishi, uno che nella sua carriera ha sempre trattato il campo del fantastico, per il suo lungometraggio decide di seguire i dogmi narrativi del j-horror (maledizioni, bimbi spiritati, folklore) attraverso un approccio che però si distingue dal genere, difatti ci troviamo fra le mani un’opera girata come finto documentario che a sua volta contiene tutti i topoi del caso (immagini tremanti, costruzione fittizia del contorno: la sparizione, l’invio della cassetta video).
C’era perciò un minimo di interesse data la variazione sul tema, ma bastano davvero pochi minuti per capire che se il come cambia, il cosa resta immutato. Superfluo stare qui ad elencare tutte le forzature che si possono facilmente rintracciare in un mockumentary – la domanda è sempre quella: possibile che questi avessero sempre la camera a portata di mano? –, più che altro preme al sottoscritto evidenziare l’inoffensività di un film del genere che fallisce laddove invece dovrebbe eccellere: Noroi non inquieta, non angoscia, non fa paura. Essendo il protagonista una specie di indagatore dell’occulto, buona parte della pellicola mostra le sue bolse procedure investigative che provocano ripetuti sbadigli, la componente che dovrebbe fare da contraltare, ovvero il Terrore, è talmente centellinata da risultare innocua, al punto che di fronte a delle fugaci apparizioni ectoplasmiche non si può che continuare a sbadigliare con il serio rischio di slogarsi la mandibola.
Le cose non migliorano nemmeno nel finale che vuoi per stile e ambientazione sembra avere un discreto debituccio con la strega di Blair, ma aldilà delle somiglianze il problema principale è che non accade niente di interessante, non solo nell’ultima mezz’ora ma anche prima.
Esclusivamente per gli afecionados della categoria.
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