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Non tragga nell’inganno pruriginoso il fatto che si parli di due adolescenti omosessuali. Non è un facile scandalo che Defurne cerca, il regista, ispirato da un libro di André Sollie, avvalendosi di una punteggiatura vagamente solondziana, ispessisce convincentemente tutto ciò che esula dalla stretta Pim-Gino; i bordi della storia sono intrecci contigui, sottostorie prospicienti come le due abitazioni e come le non-famiglie che le abitano. Tappandoci il naso su un certo psicologismo narrativo imperante qui non troppo dannoso perché non troppo accentuato, viene a galla la fragilità di due nuclei affettivi (?) in cui la mancanza di una controparte genitoriale innesca una mini-deflagrazione di cause ed effetti che si ripercuotono sul piccolo Pim. All’idea che l’origine dell’attrazione omo sia da sostanziare nell’assenza paterna (ecco lo “psicologismo” di prima, quell’obbligo di fornire una sorta di eziologia), si affiancano i fatti sullo schermo saldamente intessuti tra loro e fondati da una comune ricerca d’Amore, necessità urgente che sa assumere sorprendentemente varie coloriture: romantiche (Pim d’altronde è un sognatore), tenere (l’infatuamento della sorella), parodistiche (la madre con il tipo coatto), e un filino drammatiche (l’altra mamma che, in una grande scena, sancisce l’unione come se fosse un sacerdote).
La ricostruzione di un’epoca che si aggira tra gli anni ’60 e ’70 è tra le più riuscite mai viste laddove c’è qualcos’altro aldilà degli abiti oggi perfettamente vintage, un nonsisache di malinconico trattenuto dalle cromature pastellose che tinteggiano la realtà di Pim. Un Pim interpretato con calcolato coraggio da Jelle Florizoone classe 1995, attore di cui auspicabilmente sentiremo parlare in futuro. Per Defurne, già autore di una decina di corti, un debutto che soddisfa, niente applausi scroscianti per ora, ma un altro nome da appuntarsi sul taccuino dei registi da sorvegliare attentamente.
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