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Girato in digitale tre anni prima di Curling (2010) con un budget esiguo (poco più di 7000 €) e con due attori bulgari dediti principalmente al teatro qua all’esordio sul grande schermo, Nos vies privées è il secondo film di Denis Côté, un film ridotto all’osso in ogni sua componente che ha una prima parte depistante: con l’incontro tra i due ragazzi, che avviene per l’occasione in un cottage isolato non distante da Montréal, il regista canadese intraprende il sentiero dello schema sentimentale: i due si avvicinano, vengono acciuffati dalla morsa irrazionale dell’attrazione, scopano, giocano, si sintonizzano su frequenze carnali, separati dal mondo, racchiusi nel guscio dell’impulso; per riprendere questo incendiarsi della relazione Côté non usa un linguaggio mellifluo, non permette al romanticismo di prendere il sopravvento, anzi aldilà della scintilla sembra offrire allo spettatore attraverso i dialoghi tra lui e lei degli spunti di riflessione sui contatti virtuali tra le persone, infatti Philip e Milena ricordano come due fidanzatini di vecchia data le prime chattate o le prime conversazioni via webcam, e da qui inizia a dipanarsi il sospetto che la loro storia abbia fondamenta fragili e che sotto la patina superficiale mostrata da Internet ci siano un uomo e una donna incompatibili, una coppia di estranei che scoprono lentamente la loro inconciliabilità (il dislivello culturale amplia la forbice del feeling) e che così come è stato rapido l’invaghirsi a vicenda potrebbe essere altrettanto celere il disaffezionarsi.
Se una tale impostazione melò avesse ricoperto tutta l’opera, allora Nos vies privéesnon avrebbe particolari motivi per essere visionato, ma Côté ha talento e pur lavorando col minimo indispensabile nella seconda parte cambia pelle alla sua creatura, azzera le componenti romanceper aprirsi al thriller (quasi soprannaturale), e lo fa partendo da un fattore di squilibrio come è la scappatella di Philip al luna park, da quel bacio fedifrago in avanti lo sgretolamento del duo avviene tramite procedure inconsuete; Côté rischia molto perché la doppia (e parallela nella diegesi) svolta drammatica non ha presupposti validi e si consuma con una rapidità che lascia perplessi, in particolare per ciò che combina Milena dove sia l’abbordaggio dello sconosciuto che la sua reazione alle avances si caricano di una rigidità figlia, in buona percentuale, della povertà di mezzi di cui dispone il regista. Però nel disegno generale che si viene a creare con l’assalto dell’essere misterioso ai danni di Philip, il film si slancia in quella che si delinea come una cupa metafora della fine di un rapporto, quel capolinea popolato da fantasmi, brulicante di paure, fisime, cose da nascondere che gettano gli amanti in un limbo di insicurezza, labirinto esiziale la cui fittizia uscita può mascherarsi al massimo tra i subwoofer di una discoteca.
Non un film che mira alla perfezione quello di Côté, al contrario un film che ha nell’incompiutezza, nel mettere in scena un dramma così alieno, così irreale, la capacità di afferrare qualcosa di vero, una rappresentazione dello stato emotivo post-rottura, la fine di una storia amorosa con manate di nero a rabbuiarla e con annessa apparizione demoniaca. Mica poco.
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