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Note di prosa - 63

Creato il 18 gennaio 2011 da Sulromanzo

Da “Il Richiamo della Foresta” di Jack London

 

Correva alla testa del branco dietro quell'essere selvaggio, quel cibo vivente, per uccidere coi suoi denti e immergere fino agli occhi il muso nel sangue caldo.

 

Vi è un'estasi che segna la sommità della vita e oltre la quale la vita non può levarsi.

E il paradosso dell'esistenza è tale, che quest'estasi viene quando più si è vivi, e si presenta come un completo oblio di vivere. Questa estasi, questa felice dimenticanza, aggredisce l'artista, lo trae fuori di sé avvolto di fiamma; aggredisce il soldato spingendolo folle nella lotta senza quartiere.

Ed ecco che aggredì Buck mentre guidava il branco e lanciava l'antico grido del lupo correndo dietro al cibo ancor vivo che fuggiva dinanzi a lui nel plenilunio. Sprofondava negli abissi della sua natura, di quella parte della sua natura che più era profonda, tornando indietro nel grembo del tempo. Era dominato dal violento insorgere della vita, dalla marea dell'essere, dalla completa gioia di ogni singolo muscolo, di ogni giuntura, di ogni nervo in quanto essi erano tutto ciò che non è morte, tutto ciò che arde e che aggredisce esprimendosi nel movimento, volando esultante sotto le stelle e sulla superficie della materia morta e immobile.

 

Spitz, freddo e calcolatore anche nei suoi supremi slanci, lasciò il branco e tagliò attraverso un angusto lembo di terra intorno a cui il fiumiciattolo faceva una vasta ansa. Buck non se ne accorse, e mentre girava la curva avendo sempre dinanzi a sé il gelido spettro del coniglio, vide un altro più grande spettro di ghiaccio balzare dalla ripa sovrastante sulla strada stessa del coniglio. Era Spitz. Il coniglio non poté voltarsi, e mentre i denti bianchi del cane gli spezzavano la schiena afferrandolo a mezz'aria, diede uno strido alto come può gridare un uomo abbattuto. A questo suono, il grido della vita che precipita dalla propria altezza nella stretta della morte, tutto il branco che seguiva Buck levò un coro di gioia infernale.

 

 Buck non gridò. Non frenò la sua corsa, ma si avventò contro Spitz, spalla contro spalla, con tanta violenza che non riuscì ad afferrarlo alla gola. Rotolarono più volte sulla neve che si alzava in polvere. Spitz si rimise in piedi così in fretta che sembrava non fosse stato nemmeno rovesciato, azzannò la spalla di Buck e fece subito un salto da parte. Due volte i suoi denti urtarono insieme come le mascelle d'acciaio di una tagliola mentre indietreggiava per prendere una migliore posizione ringhiando e contraendo le labbra sottili.

 

In un lampo Buck comprese: era venuto il momento, era la lotta mortale. Mentre si giravano attorno ringhiando, le orecchie tese all'indietro, attenti a cogliere l'occasione propizia,la scena apparve a Buck in un aspetto familiare. Gli sembrò di ricordare tutto, i boschi bianchi di neve, la terra, la luce lunare e il fremito della battaglia.

 

Una calma spettrale gravava su quel silenzioso candore. Non vi era il minimo alito di vento, non tremava una foglia, e il respiro dei cani si alzava lentamente visibile, e indugiava nell'aria gelata. Quei cani che rimanevano pur sempre lupi mal domati, avevano spacciato in fretta il coniglio da neve, e adesso si erano raccolti in cerchio,aspettando. Erano silenziosi, solo i loro occhi brillavano e i loro fiati si alzavano lentamente nell'aria. Per Buck questa scena di antichi tempi non aveva nulla di nuovo né di strano. Sembrava che fosse stato sempre così, nella consueta  vicenda delle cose.

 

Spitz era un combattente esperto. Dallo Spitzberg all'Artico,attraverso il Canadà e le Barrens, si era battuto con cani di ogni genere e li aveva dominati. La sua rabbia era intensa, ma non cieca. Nella sua ansia di lacerare e distruggere non dimenticava mai che il suo nemico era animato dalla stessa ansia di lacerare e distruggere. Non si slanciava se non era pronto a resistere allo slancio dell'avversario; non attaccava prima di essersi preparato a respingere un attacco.

 

Invano Buck tentava di affondare i denti nel collo del grande cane bianco; dovunque le sue zanne cercavano la morbida carne, incontravano le zanne di Spitz. I denti urtavano contro i denti, le labbra erano lacerate e sanguinanti, ma Buck non riusciva a forzare la guardia del suo avversario. Allora si riscaldò e avvolse Spitz in un turbine di attacchi. Più e più volte tentò di raggiungere la bianca gola dove la vita pulsava alla superficie, e ogni volta Spitz lo colpì balzando poi da parte. Allora Buck cominciò a slanciarsi come se mirasse alla gola, e volgendo improvvisamente la testa e curvandola da parte, cercava di colpire con la spalla la spalla di Spitz come un ariete per rovesciarlo.

Ogni volta la spalla di Buck veniva azzannata e Spitz balzava via leggermente.

Spitz era ancora illeso mentre Buck grondava sangue e ansava. La lotta era ormai disperata e il cerchio silenzioso degli antichi lupi attendeva per finire il vinto. Adesso che Buck sentiva che il fiato gli mancava, Spitz cominciò ad aggredirlo facendolo barcollare. Una volta Buck fu quasi rovesciato e l'intero cerchio dei sessanta cani balzò in piedi; ma egli si riprese quasi a mezz'aria e il cerchio tornò ad accovacciarsi aspettando.

 

Buck possedeva una qualità propria della grandezza:l'immaginazione.

 Lottava per istinto, ma poteva anche combattere col cervello. Si slanciò come se volesse dare il solito colpo di spalla, ma all'ultimo momento si appiattì contro la neve, e i suoi denti afferrarono la zampa sinistra anteriore di Spitz. Si udì uno scricchiolio di ossa spezzate, e adesso il cane bianco lo affrontava su tre sole zampe. Per tre volte egli tentò di rovesciarlo. Poi ripeté il colpo e gli spezzò la zampa destra.

 

Nonostante il dolore e l'impotenza, Spitz lottava follemente per tenersi in piedi. Vedeva il cerchio silenzioso con gli occhi fiammeggianti e le lingue penzoloni e i fiati argentei che salivano nell'aria, chiudersi intorno a lui, come aveva visto altre volte quei circoli chiudersi intorno ai suoi avversari sconfitti.

Questa volta il vinto era lui. Non vi era più speranza.

 

Buck era inesorabile. La pietà è propria di climi più miti. Si preparò all'ultimo assalto. Il cerchio si era così ristretto che egli poteva sentire il respiro degli eschimesi sui fianchi. Li poteva vedere dietro Spitz e ai due lati, già raccolti per lo slancio con gli occhi fissi su di lui.

Vi fu una pausa; gli animali erano immobili, come impietriti.

 

Solo Spitz fremeva ed ergeva il pelo brancolando avanti e indietro, ringhiando minacciosamente come per atterrire la morte vicina. Allora Buck balzò di fianco e finalmente la sua spalla colpì bene l'altra spalla.

 

Il cerchio buio divenne un'unica macchia sulla neve illuminata dalla luna e Spitz scomparve. Buck stette a guardare, campione vittorioso, belva dominatrice dei primordi, che aveva ucciso e aveva trovato che era buona cosa.

 

***

Henry Cowell - Return (1939)

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