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Note di prosa - 79

Creato il 09 febbraio 2011 da Sulromanzo

DaLa Confessione di un Figlio del Secolo di Alfred De Musset

Capitolo I

Per scrivere la storia della propria vita, bisogna intanto aver vissuto; così non è la mia che scrivo. Ma, come un ferito colpito dalla cancrena se ne va in un teatro anatomico a farsi tagliare un membro putrefatto e il professore che lo amputa, coprendo con un telo bianco il membro separato dal corpo, lo fa circolare di mano in mano per tutto l’anfiteatro perché gli allievi lo esaminino, allo stesso modo, quando un certo periodo dell’esistenza di un uomo, e, per così dire, uno dei membri della sua vita è stato ferito e incancrenito da una malattia morale, costui può tagliare questa parte di se stesso, tranciarla di netto dal resto della sua vita e farla circolare sulla pubblica piazza, affinché le persone della stessa epoca palpino e giudichino la malattia.

Così, essendo stato colpito nel primo fiore della giovinezza da una malattia morale abominevole, racconto ciò che mi è capitato per tre anni. Se fossi malato solo io, non ne parlerei, ma dal momento che molti altri soffrono dello stesso male, scrivo per loro, senza troppo preoccuparmi di sapere se vi faranno attenzione; perché, nel caso in cui nessuno vi badasse, avrò comunque tratto dalle mie parole il frutto di essermi meglio guarito io stesso e, come la volpe presa in trappola, avrò rosicchiato il mio piede prigioniero.

Capitolo II

Durante le guerre dell’Impero, mentre i mariti e i fratelli erano in Germania, le madri inquiete avevano messo al mondo una generazione ardente, pallida, nervosa.  Concepiti tra due battaglie, allevati nei collegi al rullo dei tamburi, migliaia di giovani si guardavano con occhi cupi, saggiando i loro gracili muscoli. Di tanto in tanto i loro padri insanguinati apparivano, li sollevavano sui loro petti carichi d’oro e rimontavano a cavallo.

Un solo uomo era in vita allora in Europa, il resto degli esseri cercava di riempirsi i polmoni dell’aria che egli aveva respirato. Ogni anno la Francia faceva dono a quest’uomo di trecentomila giovani e lui, prendendo con un sorriso questa fresca fibra strappata al cuore dell’umanità, la torceva tra le sue mani e ne faceva una corda nuova al suo arco; poi posava su quest’arco una di quelle frecce che attraversarono il mondo e se ne andarono a cadere in una piccola valle di un’isola deserta, sotto un salice piangente.

Mai vi furono tante notti senza sonno come al tempo di quest’uomo; mai si vide sporgersi sui bastioni delle città un così vasto popolo di madri desolate; mai vi fu un tale silenzio attorno a coloro che parlavano di morte. E non vi furono però mai tanta gloria, tanta vita, tante fanfare guerresche in tutti i cuori; mai vi furono soli così puri come quelli che asciugarono tutto questo sangue. Si diceva che Dio li facesse per quest'uomo e venivano chiamati i suoi soli di Austerlitz. Ma era lui stesso a farli con i suoi cannoni sempre tonanti, che non lasciavano nubi che all’indomani delle sue battaglie.

Era l’aria di questo cielo senza macchia, in cui brillava tanta gloria, in cui risplendeva tanto acciaio, che i bambini respiravano a quel tempo. Sapevano bene di essere destinati alle ecatombi, ma credevano Murat invulnerabile, e si era visto passare l’imperatore su un ponte dove sibilavano tante di quelle pallottole, che non si sapeva se fosse mortale. E se anche si doveva morire, cos’era in fondo? La morte stessa era così bella allora, così grande, così magnifica nella sua porpora fumante! Assomigliava così tanto alla speranza, falciava delle spighe così verdi che era quasi diventata giovane, e non si credeva più alla vecchiaia. Tutte le culle di Francia erano scudi, e lo erano anche tutte le bare; non c’erano più vecchi, in verità; non c’erano che cadaveri o semidei.

Intanto, l’imperatore immortale stava un giorno sopra una collina a guardare sette popoli sgozzarsi; mentre non sapeva ancora se sarebbe stato il padrone del mondo o solo della metà, Azrael passò sulla strada, lo sfiorò con la punta dell’ala e lo spinse nell’oceano. Al rumore della sua caduta, le vecchie idee moribonde si raddrizzarono sui loro letti di dolore, e, allungando le loro grinfie adunche, tutti i ragni reali tagliarono a pezzi l’Europa, e dalla porpora di Cesare si fecero un abito di Arlecchino.

Come un viaggiatore, finché è per strada, corre notte e giorno con la pioggia e con il sole, senza accorgersi delle veglie né dei pericoli, ma, appena arrivato tra i suoi familiari e seduto davanti al fuoco, prova una stanchezza senza limiti e riesce appena a trascinarsi a letto, così la Francia, vedova di Cesare, sentì a un tratto la sua ferita. Cadde in deliquio e si addormentò di un sonno così profondo che i suoi vecchi re, credendola morta, l’avvolsero in un lenzuolo bianco. La vecchia armata dai capelli grigi rientrò stremata di fatica e i focolari dei castelli deserti si riaccesero tristemente.

Allora questi uomini dell’Impero, che avevano tanto corso e tanto sgozzato, abbracciarono le loro donne dimagrite e parlarono dei primi amori; si specchiarono nelle fonti delle praterie natali e si videro così vecchi, così mutilati, che si ricordarono dei figli, perché qualcuno chiudesse loro gli occhi. Chiesero dove fossero; i ragazzi uscirono dai collegi e, non vedendo più né sciabole, né corazze, né fanti, né cavalieri, chiesero a loro volta dove fossero i padri. Gli fu risposto che la guerra era finita, che Cesare era morto e che i ritratti di Wellington e di Blücher erano appesi nelle anticamere dei consolati e delle ambasciate, con sotto queste due parole: Salvatoribus mundi.

Allora si sedette su un mondo in rovina una giovinezza inquieta. Tutti questi ragazzi erano gocce di sangue ardente che aveva inondato la terra; erano nati in seno alla guerra, per la guerra. Avevano sognato per quindici anni le nevi di Mosca e il sole delle piramidi, erano stati temprati al disprezzo della vita come giovani spade. Non erano usciti dalle loro città, ma gli era stato detto che per ogni porta di quelle città si andava a una capitale d’Europa. Avevano in testa tutto un mondo; guardavano la terra, il cielo, le strade e i sentieri; tutto era vuoto, e le campane delle loro parrocchie risuonavano sole in lontananza.

(…)

Nondimeno, salì sulla tribuna delle arringhe un uomo che teneva in mano un contratto tra il re e il popolo; cominciò a dire che la gloria era una bella cosa, e l’ambizione e la guerra anche; ma che ce n’era una più bella, che si chiamava libertà.

I ragazzi risollevarono il capo e si ricordarono dei loro nonni, che ne avevano tanto parlato. Si ricordarono di aver incontrato, negli angoli oscuri della casa paterna, busti misteriosi con lunghi capelli di marmo e un’iscrizione romana; si ricordarono di aver visto la sera, alla veglia, i loro avi scuotere la testa e parlare di un fiume di sangue molto più terribile di quello dell’imperatore. C’era per loro in questa parola di libertà qualcosa che gli faceva battere il cuore come un ricordo lontano e terribile e, allo stesso tempo, come una cara speranza, più lontana ancora.

Trasalirono nell’ascoltarla; ma, tornando a casa, videro tre panieri che venivano portati a Clamart: erano tre giovani che avevano pronunciato troppo forte questa parola di libertà.

Uno strano sorriso passò loro sulle labbra a questa triste visione; ma altri arringatori, salendo in tribuna, cominciarono a calcolare pubblicamente quel che costava l’ambizione, e che la gloria era molto cara; fecero vedere l’orrore della guerra e chiamarono macellerie le ecatombi. E parlarono tanto e così a lungo che tutte le illusioni umane, come alberi in autunno, cadevano foglia a foglia intorno a loro, e quelli che li ascoltavano si passavano la mano sulla fronte come febbricitanti che si risveglino.

(..)

Ma la giovinezza non se ne accontentava. È certo che ci sono nell’uomo due potenze occulte che combattono fino alla morte; l’una, chiaroveggente e fredda, si attacca alla realtà, la calcola, la soppesa e giudica il passato; l’altra ha sete dell’avvenire e si slancia verso l’ignoto. Quando la passione trasporta l’uomo, la ragione lo segue piangendo e avvertendolo del pericolo; ma appena l’uomo si arrende alla voce della ragione, appena si dice: “È vero, sono un pazzo, dove stavo andando?”, la passione gli grida “ E io, devo dunque morire?”.

Un sentimento di malessere insopportabile cominciò dunque a fermentare in tutti i giovani cuori. Condannati al riposo dai sovrani del mondo, abbandonati a sorveglianti di ogni specie, all’ozio e alla noia, i giovani vedevano ritrarsi le onde spumeggianti contro le quali avevano preparato il braccio. Tutti questi gladiatori spalmati d’olio sentivano in fondo all’anima una miseria insopportabile. I più ricchi si fecero libertini; quelli di mediocre fortuna scelsero uno stato e si rassegnarono sia alla veste, sia alla spada; i più poveri si gettarono nell’entusiasmo a freddo, nelle grandi parole, nel mare disgustoso dell’azione senza scopo.

(..)

O popoli dei secoli futuri! Quando, in una calda giornata d’estate, sarete curvi sui vostri aratri nelle verdi campagne della patria; quando vedrete, sotto un cielo puro e senza macchia, la terra, la vostra feconda madre, sorridere nella sua veste mattutina al lavoratore, suo figlio prediletto; quando asciugandovi sulle fronti tranquille il santo battesimo del sudore, lascerete errare i vostri sguardi sul nostro immenso orizzonte, in cui non ci sarà una spiga più alta di un’altra nella messe umana, ma soltanto fiordalisi e margherite tra il grano che ingiallisce; o uomini liberi!, quando allora ringrazierete Dio di essere nati per quel raccolto, pensate a noi che non ci saremo più; ditevi che noi abbiamo pagato ben caro il riposo di cui godrete, compiangeteci più di tutti i vostri padri; perché noi abbiamo molti dei mali che li rendevano degni di compassione e abbiamo perduto quello che li consolava.

***

Bruno Bettinelli (1913-2004) : Sinfonia Breve (1954)
1. Entrata
2. Intermezzo

 

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