Lascia poco spazio alle parole il debutto sul grande schermo dell’olandese Urszula Antoniak che preferisce affidarsi (/abbandonarsi) al cinema del non detto fatto di Immagini cui tocca costruirne il senso.
Le uniche coordinate fornite sono la suddivisione del film in capitoletti; il primo è Solitudine, giusto per battere inizialmente una strada che comunque dovrà essere percorsa dallo spettatore, nel quale vediamo una donna che abbandonata la propria casa in Olanda, e probabilmente abbandonata anche da un marito, nell’istante di uno stacco la si ritrova a vagare per le fiabesche terre irlandesi, al riparo da una tenda ma non dalle sue paure (il camionista che le dà un passaggio non stava facendo niente!).
Il secondo capitolo Fine di una relazione segna il concludersi del “rapporto” fra la donna e la sua solitudine poiché ella incontra un uomo che abita in una casa a un passo dalla terra e a due dal mare. L’occhio di bue stringe su queste due anime ed è un’operazione tanto coraggiosa quanto rischiosa per la regista perché pone alla nostra attenzione la storia di due vite che, detto brutalmente, non hanno niente da raccontare, a parte la loro emarginata condizione.
Il lento avvicinarsi dell’uomo e della donna che per un patto concordato non si chiamano nemmeno per nome ma semplicemente “you”, avrebbe, anzi ha, una cifra universale laddove appunto La donna e L’uomo trasformano la solitudine che segna la loro esistenza in solidarietà, mutuo sostegno reciproco che non viene smielatamene ostentato ma che vive nei piccoli gesti infinitesimali: la colazione del mattino, lo stesso patto di non chiedere nulla all’altro è una via per l’incontro e l’uscita serale al pub è una condivisione di esperienze che forma.
Ma forma cosa? Conclusa la visione di Nothing Personal (2009) non bisogna cadere nel tranello “della storia d’amore” poiché questo film non fa parte di tale categoria. L’amore, comunque reso in una veste contenuta e dignitosa, è la conseguenza di un altro fatto che precede il sentimento: quello del conoscersi, della curiosità umana che si cerca di sottacere non riuscendoci, del bisogno bowlbiano di sentire calore.
Ciò che si forma è perciò un procedimento che porterà la ragazza da una tenda dispersa fra le terre brulle accanto all’uomo: prima nella stessa casa e successivamente nello stesso letto. Tuttavia non ci sarà mai una palese manifestazione del sentimento, l’unico atto che si potrebbe definire amorevole è ripreso nel dettaglio di due mani che timidamente si sfiorano fino ad unirsi con tutta quella forza che la lontananza non li ha ancora levato.
Ad ogni modo la falsa pista da film romantico che vede quasi sempre nel suo schema fisso un finale segnato dall’unione o dalla disunione, viene seguita anche qui con una forte immagine conclusiva comprensiva di come questa non sia altro che una storia di isolamenti, corroborata dal nome dei capitoli, perché proprio quando la ragazza sta per tornare da sola appare la scritta Inizio della relazione, l’ossimoro è la solitaria relazione.
Tuttavia il lavorare della Antoniak più per astrazione che in maniera concreta veste il film di un abito che non è il massimo della fruibilità, non foss’altro perché o ti chiami Kim Ki-duk, sebbene la sensibilità orientale abbia un taglio del racconto lontanissimo da questo, oppure offrire il palcoscenico silenzioso a soli due personaggi può ridurre l’interesse verso tutta la vicenda dove comunque l’alter ego di Neil Jordan Stephen Rea, e Lotte Verbeek, olandese con l’Irlanda negli occhi (e nei capelli), si fanno ricordare, soprattutto lei.