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Notizie dal ghetto globale

Creato il 10 gennaio 2011 da Massmedili

Notizie dal ghetto globaleLa fregatura? Forse l’etichetta alternative appiccicata sotto la definizione del genere…

Perché questo bell’album del trentacinquenne americano Sufjan Stevens (il suo nono, se non andiamo errati), in bilico fra elettronica, canzonetta (Too Much il brano + orecchiabile, I Want To be Well quasi dance), qualche eco folk non ha proprio niente da invidiare a proruzioni mainstream, posto che la parola possa avere ancora un senso. Anzi, ancora di più: perché mi ricorda tanto lavori di gente come Peter Gabriel o l’ultima fatica dei Coldplay (l’album prodotto da Brian Eno)? E perché quelli passano su MTV e simili, si trovano a pacchi nei negozi di dischi e di questo mi è capitato di recuperarne una copia di passaggio quasi per caso?

Dietro all’aspetto un po’ruvidiccio (le non proprio accattivanti illustrazioni dell’artista schizofrenico Royal Robertson), a qualche brano leggermente più cerebrale (come la title track) e alla casa discografica autoprodotta (Asthmatic Kitty Records) c’è un album tutto sommato quasi perfettamente commerciale, che non ha nulla da invidiare a quelli sfornati dall’ “industria” discografica. Stevens è un artista tutto sommato risolto, completo, con un’identità fortissima e non comuni capacità di coniugare citazioni colte (echi minimalisti alla Terry Riley e Philip Glass perfettamente digeriti) con una vocalità da juke box e qualche eco R&B. Ma è un artista indie: anche se il Time ha inserito questo The Age of ADZ  (L’era della pubblicità) fra i 10 album più influenti del 2010, comunque è entrato nelle classifiche USA solo al 7° posto con 36 mila copie vendute la prima settimana. La prima, ma anche l’unica volta di Sufjan in classifica.

Sarbbe mai uscito un album del genere se non per un’etichetta indie? E ancora: sarebbe mai riuscito Sufjan Stevens a realizzare 9 album se non rimanendo un eroe alternativo?

Di sicuro stare nell’indie garantisce, se non una vasta fama, almeno carriere mediamente più lunghe rispetto agli artisti mainstream, che di solito ormai riescono a piazzare un album o due e poi più, vista la tendenza delle case discografiche a puntare solo sui successoni commerciali globali e sempre meno sulla fascia media di produzione e sulle nuove proposte, alimentando così il circolo vizioso di dischi sempre più tutti uguali e che vendono sempre meno. Niente di nuovo e niente di fresco viene pubblicato dalle major, che invece continuano a spremere i “vecchi” artisti, magari sulla scena da oltre 40 anni, purché sfornino ancora qualcosa, a costo anche di lasciare che siano sé stessi…

Però c’è una cosa che dispiace ancora di più. Cioé la sostanziale impermeabilità fra musica vecchia e nuova, fra indie e mainstream, l’impossibilità di poter pensare a collaborazioni fra artisti che evidentemente hanno molto in comune ma sono di “provincie” diverse. Per cui non sentiremo mai un disco di Peter Gabriel o Brian Eno e Sufjan Stevens, così come non sentiremo mai qualcosa del tipo  Crosby, Stills, Nash & Devendra Banhart o Regina Spektor & Joni Mitchell anche se musicalmente magari avrebbero molto senso.

La morte cerebrale delle case discografiche tradizionali impedisce qualsiasi forma di fertilizzazione incrociata e in un certo senso anche alla musica di andare avanti, alla creatività di muoversi senza confini, al di là degli steccati imposti da distinzioni commerciali assurde come, appunto, mainstream e indie.


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