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3) L’indispensabile tubino nero
Nel guardaroba di una donna non dovrebbe mai mancare un tubino nero. Un pezzo per tutte le occasioni. Ero donna già da parecchio quando mi resi conto di dovermi adeguare in vista della consacrazione definitiva ai fottuti riti sociali. Ero cresciuta ma ancora giovane e sciocca, mi affrettai a procurarmelo. Avevo qualche chance di indossarlo per un aperitivo, o per un invito a cena estemporaneo.
Appena riemersa da una lunga nuotata in mare, in pieno agosto, presi il mio primo cellulare con le mani bagnate e lo accostai all’orecchio, tra ciocche di capelli grondanti acqua salata. Quando risposi a mio padre, non ero pronta a ricevere i suoi singhiozzi. Non ero pronta alla morte di mio nonno. Non ero pronta in genere a un funerale. Per questo, tornata a Roma con il primo volo, stordita e dispiaciuta, indossai senza pensarci troppo quel tubino nero, che si rivelò a tutti gli effetti indispensabile.
Nonno apprezzava le belle donne, così mio padre, così mio figlio. Pensando a loro, mi rendo conto del perché, con tutto il testosterone di famiglia in circolo, anch’io sia a tratti tanto mascolina.
Le rare volte che ci incontravamo, lui mi lusingava esclamando sempre che invece di crescere stavo ringiovanendo. E faceva arrossire me e le mie cugine con commenti compiaciuti sulle nostre gambe, se ci presentavamo in gonna. Per il resto è stato una persona molto a sé. Nei discorsi teneva banco (parlando di politica o del Papa) e raccontava molte barzellette (ancora sui politici e sul Papa). A noi nipoti pensava sempre e solo nonna, coi suoi sorrisi e le buste passate di nascosto (“Non farti vedere da nonno”) con dentro ventimila lire.
Per la durata della messa funebre mi sentii a disagio. Il nero lo indossavo, e in un’unica soluzione, proprio come la tonaca di un prete.
Il punto è che fino al giorno prima mi aggiravo pressoché nuda e senza pensieri sotto il sole, spostandomi dall’asciugamano all’onda e viceversa, tutta sensualità e vigore. Ora quel tubino addosso metteva in mostra gambe abbronzate e tornite dal nuoto e una pelle tanto scura da smarrirsi sullo sfondo della chiesa buia, e che rabbrividiva nella sua aria fresca. Non era quella l’immagine giusta per un funerale. Pareva un affronto alla morte.
A mio nonno, però, credo sarebbe piaciuta.
Indossai lo stesso vestito poche altre volte, via via che perdevo avi, sempre in piena estate. Ora sta lì appeso nell’armadio. Guai a guardarlo. Guai a guardare così lontano, fino ad agosto, mese tanto sfigato.
§§§
Nemmeno è iniziata primavera. Ma intorno il mondo sembra non riuscire a pensare a sé stesso vivo e vegeto ancora solo tra qualche settimana. Visti da fuori sembriamo tutti coinvolti in un grande e caotico Conclave, dove ciascuno ha il diritto/dovere di dire la sua e sarà molto difficile trovare un accordo tra noi. Per ritrovarci chi, poi, a rappresentarci? Io sono allergica, moltissimo, al Super Rappresentante Universale, caro G. Ho i piedi ben piantati in terra e ti confesso che in certi momenti, realizzando che il tempo continua a rotolare in discesa, ho delle visioni tutt’altro che felici di quello che mi aspetta.
Ma tu mi avevi detto di
raccontare fatti, e basta. Nessuna riflessione, nessun pensiero, nessun sentimento eccetera: semplice racconto di fatti.
e ho disatteso in pieno questa regola. Fumata nera per oggi, mi dispiace.
Pertanto, prima di andare a cercare di capire, con gli ovvi limiti dovuti alla mia estraneità ai termini economici, una interessante discussione tra due cardinali del web, mi permetto di cadere ancora più in basso:
Si fece avanti un maggio senza cielo
Che non ricordava niente
Che non era mai stato prima
Che, paziente, un dodicesimo chiedeva
D’attenzione. E finì esausto per lasciare
L’ abito nero al mese che seguiva.
Ma Giugno non ebbe cuore di indossarlo
Tutti quei grilli strepitanti addosso
E i fiori già sbocciati e il suono giallo dell’onda
Che lo spingeva al largo. Dovette dagli retta:
Chiamò a gran voce Luglio
E in fretta e furia gli porse la staffetta.
Quello, da un anno sotto il tabellone degli arrivi,
I tacchi conficcati nel terreno, attese
L’occasione col vestito in mano, per regalarlo
Al primo che scendesse giù da un treno.
Ma era così nero che fece notte presto,
E da un binario morto sbucò Agosto.
Che nudo e solo lo usò come lenzuolo
In una camera a ore, nascosto tutto un mese
Senza più speranza e senza più luci accese
Quando arrivò un Settembre sconosciuto
Gli disse di afferrare l’abito e di stringerglielo
Forte al collo, lui non avrebbe chiesto aiuto.