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Novara, amata citta’ d’un tempo

Creato il 16 ottobre 2010 da Speradisole

NOVARA, AMATA CITTA’ D’UN TEMPONovara.

Conosco molto bene la città di Novara per essere stata una “oriunda”, o una “non del territorio”.  

Ho iniziato la mia carriera professionale, “fuori casa”,  proprio in quella città, lontana dalla mia famiglia oltre 450 chilometri.

Sono stata una pendolare per anni.

Sacrifici che si fanno per poter lavorare. Sacrifici comuni a tante altre persone, niente di straordinario.

Novara, una città che ho amato e che amo ancora per tanti motivi, ma che ora mi sta deludendo, per come è governata.

Questo articolo di Claudio Fava, amatissimo giornalista,  descrive la Novara attuale, sconosciuta, triste, egoista, diffidente, chiusa e razzista.

Non è più la mia Novara.

Novara razzismo Italia

Di Caludio Fava

Quand’eravamo ragazzi, Novara per noi era la De Agostini.
Cioè le carte geografiche, le capitali col cerchietto nero, il blu profondo degli oceani, un esotismo scolastico che sapeva di monti, laghi, fiumi, lingue, navigazioni, epifanie… Era un’orizzonte senza linee, una geografia che mescolava, colorava e si presentava ai nostri occhi denso e ricco.

Insomma: era il mondo. E noi, ragazzi di provincia, lustravamo con gli occhi e con l’anima quelle carte geografiche appese ai muri delle nostre scuole, le solcavamo con lo sguardo, imparavamo a conoscerle e a smarrirci dentro.

Adesso Novara rischia di diventare periferia triste di quest’Italia. Meno che provincia: s’è fatta quartiere, rione dell’anima, luogo chiuso e diffidente. Come quasi tutte le altre città italiane del nord.

Merito delle delibere inventate dalla giunta comunale, leghisti e Pdl.

La prima delibera sancisce che se si sta a chiacchierare in tre dopo la mezzanotte nei parchi cittadini, fosse pure ferragosto, rischi la galera.

La seconda dispone che i locali etnici devono stare ben distanti l’uno dall’altro, almeno 150 metri, pena il ritiro della licenza.

La terza dice che non si può più mangiare il kebab per strada.

La quarta impone alle insegne dei negozi in lingua non italiana di affiancare la traduzione ben in vista (dunque supermarket, wine, hot dog dovranno essere accompagnati dalla opportuna traduzione: supermercato, vino, cane caldo…) .

Un’ultima delibera, infine, dice che se non sei italiano e vuoi avere una licenza commerciale (o vuoi conservare quella che t’hanno già improvvidamente rilasciato), dovrai superare un test di cultura generale.

Ora, facevano prima durante il fascismo ad attaccare un bel cartello sulle vetrine per spiegare che quello era un negozio ariano. C’era più onesta sincerità: ci si definiva razzisti senza troppi giri di parole.

A Novara, per pudore o per viltà, quella parola non si pronuncia. La si riduce a caricatura di se stessa (i test, le insegne in italiano, i capannelli dei consumatori di kebab sugli italici marciapiedi…). Ma il significato molesto di quell’assembramento di delibere è lo stesso: fuori dai coglioni gli immigrati. Non solo da Novara.

Colpa della Lega? Solo colpa loro? Troppo comodo. È l’Italia, bellezza. È questa la nuova questione settentrionale. Ed è anche l’inettitudine nostra, opposizioni di sua maestà, attenti nei discorsi ad accoppiare sempre tra loro le parole come fossero carabinieri: immigrazione, ma anche sicurezza.

La settimana scorsa, a quaranta chilometri da Novara, in un’assemblea altolocata del PD sono state elaborate sull’immigrazione proposte per tanti aspetti non lontane dalle delibere che vi ho appena raccontato: permesso di soggiorno a punti, test d’ingresso per gli immigrati, prova d’esame sulle tradizioni italiane.

Questa evocazione della tradizione, e ci spiace dirlo, è stata una trovata di Veltroni. Si dirà: tradizioni italiane, mica padane, come vorrebbe la Lega. Peccato che il punto non stia nell’aggettivo, padane o italiane, ma nel sostantivo forte, aspro e improprio: la tradizione.

Parola che oggi profuma di razza, che sa di privilegio. Parola ariana. Parola sgrammaticata, se penso a quante razze stavano su quelle carte geografiche, quand’ero ragazzo, squadernate davanti ai nostri occhi, belle perché diverse, lontane tra loro, profumate di un altrove che era il sogno della nostra vita.

Adesso l’altrove è tutto chiuso dentro di noi: la nostra razza, la nostra lingua, il nostro campanile.

Verrebbe voglia di applicarle alla lettera, queste proposte bizzarre. Verrebbe da farlo davvero un test di ammissione sulle tradizioni italiane. Magari i nigeriani ti risponderebbero, con la lingua della verità, che per loro le nostre tradizioni sono le miserabili mazzette pagate in Sicilia a destra e a sinistra dai notabili della politica, sono i senatori della repubblica riveriti come padri della patria e condannati per associazione mafiosa, sono i quindici euro al giorno che i nostri caporali pagano agli immigrati schiavi nelle campagne napoletane, sono le risate dei costruttori (italianissimi) quando apprendono che la terra trema e che potranno intingere il loro pane sulla morte degli altri con gli appalti per la ricostruzione.

Facciamolo, questo test! Ma pronti a raccogliere tutte le risposte che ci verranno servite. E a specchiarci in quelle risposte, senza far finta che basterà mandare a casa Berlusconi per riscoprire il profumo perduto di quelle carte geografiche.



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