Grazie alle notizie che continuano ad arrivare dalla Repubblica Democratica del Congo, abbiamo potuto constatare ancora una volta che si tratta di un Paese che appartiene ad una regione che, sfortunatamente per i suoi abitanti, da decenni è associata al conflitto e alla violenza più efferata di un gruppo di cittadini contro altri. Infatti, nella zona limitrofa al Ruanda si è registrato il più alto numero di vittime in un conflitto dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Accadde nel genocidio del 1994 in Ruanda, e proseguì lungo tutti gli anni ’90, aggiungendo tensione e violenza anche all’avvicendarsi dei due secoli. Secondo le stime, tra il 1998 e il 2004, circa quattro milioni di persone hanno perso la vita in massacri che furono perpetrati perfino nei campi in cui aveva cercato rifugio la popolazione, per la maggior parte hutu, in fuga dalla violenza etnica in Ruanda. Viviamo ancora le conseguenze di quei terribili anni nella regione dei Grandi Laghi. Uno degli episodi più recenti è legato all’insurrezione del movimento ribelle M23, nel Kivu Nord e nelle altre province orientali della Repubblica Democratica del Congo.
Risoluzione 2098: il Consiglio di Sicurezza prende iniziativa
Lo scorso 29 marzo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha dato, all’unanimità, il proprio appoggio allo spiegamento della prima brigata con caratteristiche simili ad essere autorizzata nella storia dell’organismo multilaterale. Con questa decisione si vuole porre un freno ai “cicli ricorrenti di violenza” che affliggono l’est della Repubblica Democratica del Congo. Al fine, in una fase successiva, di affrontare le cause più profonde che impediscono il raggiungimento di una soluzione definitiva al conflitto.
Inoltre, mediante l’approvazione della Risoluzione 2098, il Consiglio di Sicurezza ha stabilito la creazione del contingente che, all’inizio, sarà composto dalle truppe di Tanzania, Malawi e Repubblica del Sudafrica.
La principale novità che questa brigata presenta è che essa è stata dotata di capacità offensiva. Pertanto, non sarà una semplice forza di interposizione, dispiegata con l’unico obbiettivo di mantenere la pace o dissuadere i contendenti dall’impiego di armi: in questa occasione, l’unità militare dovrà neutralizzare i movimenti insorgenti, congolesi o stranieri, che mantengono aperto il conflitto, in un costante confronto con le autorità di Kinshasa. A tal fine, la brigata dovrà prendere iniziativa nel combattimento, e attaccare le posizioni ribelli quando si ritenga che queste stiano perpetrando nuove violazioni dei diritti umani e atti contrari al diritto internazionale.
In questo modo, il Consiglio di Sicurezza si propone di sostenere le operazioni di pace intraprese dalla MONUSCO. Sebbene la missione fosse già autorizzata a intraprendere azioni di carattere offensivo, oltre la legittima difesa, queste non erano il suo obbiettivo prioritario, come invece succede per la brigata di intervento. Nessuna forza dispiegata prima dalle Nazioni Unite aveva avuto come obbiettivo prioritario quello di prendere iniziativa in azioni di attacco contro una delle parti implicate in un conflitto armato. In un certo qual modo, la Risoluzione 2098 implica il riconoscere che, finora, la presenza dei 17.000 effettivi che compongono la MONUSCO non è stata sufficiente ad evitare l’escalation di violenza negli ultimi mesi, né a dissuadere i contendenti dall’attentare alla vita e alle proprietà della popolazione civile. Il riattivarsi dell’M23 e dei gruppi scissi di questo movimento, così come quello dei ribelli Mai-mai nella regione di Katanga, ha riportato il Paese a una situazione limite.
Dal mantenimento all’imposizione della pace
La Risoluzione 2098 si ispira a un principio contenuto nel Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, all’articolo 42. Concretamente, il cosiddetto Peace Enforcement, che lascia aperta la possibilità di adottare delle misure che prevedano l’uso della forza. Tuttavia, tali misure possono essere approvate soltanto mediante decisione da parte del Consiglio di Sicurezza, una volta verificato che le iniziative di pacificazione avviate per mediare in un conflitto non abbiano prodotto risultati soddisfacenti. Come fa notare Pilar Pozo, il concetto di sicurezza collettiva nella Carta delle Nazioni Unite si è evoluto, da una concezione originariamente militare a un’idea più comprensiva, nella quale vengono enfatizzati i diritti e le libertà individuali e dei popoli. La sicurezza umana è una delle manifestazioni più evidenti di questa trasformazione concettuale. Allo stesso modo, come, tra gli altri, sottolinea anche Pozo, molti dei rischi e delle minacce attuali alla sicurezza hanno una dimensione globale, e coinvolgono numerosi attori, con un raggio di azione nazionale, regionale o multilaterale.
Tali rischi e minacce superano di gran lunga la definizione iniziale contenuta nel Capitolo VII: “qualunque evento o processo che causi morti su larga scala o una riduzione massiccia della possibilità di vita e che mini il ruolo dello stato quale unità fondamentale del sistema internazionale [...]”. Il cosiddetto “Rapporto Brahimi”, redatto alla fine degli anni ’90 dietro istanza del Segretario Generale, raccoglie le principali conclusioni del nuovo paradigma per la prevenzione e risoluzione dei conflitti e per il mantenimento e consolidamento della pace. Il documento fa riferimento ad alcuni dei principali problemi che si sono presentati durante lo sviluppo della MONUSCO, e che possono influire analogamente sul dispiegamento della brigata di intervento nella Repubblica Democratica del Congo: l’efficacia e le risorse disponibili per svolgere le missioni in sicurezza. La presenza delle truppe delle Nazioni Unite in questo complesso e impoverito Paese africano è ritenuta un fallimento da vaste porzioni dell’opinione internazionale. Soprattutto tendendo conto del fatto che il principale obbiettivo di queste missioni di pace è proteggere la popolazione civile, molto vulnerabile quando la violenza si innesca e che diventa bersaglio per tutte le fazioni contrapposte. In tal senso, le denunce di un soldato sudafricano che partecipò agli scontri con l’M23 illustrano la situazione nella quale versa il Paese. Nel corso di dichiarazioni rilasciate a vari media del proprio Paese, il militare ha riportato come i soldati dovettero scontrarsi con battaglioni totalmente composti da bambini, i quali invocavano le madri in seguito alle ferite riportate negli scontri.
Incertezza nella nuova missione
Dal punto di vista dell’efficacia, la brigata di intervento continua a suscitare alcuni dubbi.
In primo luogo, abbiamo già menzionato le difficoltà logistiche che hanno rallentato lo spiegamento. Le truppe provenienti da Malawi, Tanzania e Repubblica del Sudafrica non sono ancora state trasferite sulla scena del conflitto, né tantomeno l’armamento né i pezzi di artiglieria dei quali il contingente dovrà disporre.
Nel frattempo, il Colonnello Kazarama, uno dei capi ribelli del movimento M23, assicura che i suoi uomini si stanno addestrando per preparare attacchi alla nuova brigata non appena verrà dispiegata nel Kivu. Le imboscate, e altre tattiche proprie della guerriglia, basate sulla conoscenza del terreno e sul controllo che questi gruppi esercitano su parte del territorio, saranno le principali risorse delle quali si avvarranno i ribelli che insorsero contro Joseph Kabila. E questi non sembrano essere vantaggi minori rispetto a quelli della forza internazionale.
È evidente che, se quasi 20.000 effettivi non sono riusciti a neutralizzare la milizia ribelle, i 3.000 che arriveranno prossimamente dovranno impegnarsi a fondo per raggiungere l’obbiettivo che è stato loro affidato.
Un problema in più per il comando della MONUSCO, quando la brigata di intervento entrerà in azione, è la posizione dei Paesi vicini implicati nel conflitto, in particolar modo Ruanda e Uganda. Se i governi di Kigali e Kampala decideranno di continuare ad appoggiare i ribelli congolesi, la risoluzione del conflitto non sarà facile, per due ragioni: la prima è che i ribelli disporrebbero di armi e finanziamenti per continuare a contrapporsi all’esercito congolese e alle truppe internazionali, esattamente come è accadde alla fine dello scorso anno. Allora, l’M23 fu rinforzato con armi provenienti dai due paesi, secondo quanto si apprese da un rapporto elaborato sull’argomento dalle Nazioni Unite. Il documento provocò l’adirata reazione dei governi accusati di riarmare i ribelli congolesi, al punto che l’Uganda minacciò di ritirare le sue truppe dalla missione internazionale di pace in Somalia. La seconda ragione è l’impatto che il conflitto avrà sulla popolazione civile, soprattutto nella zona che resta sotto il controllo diretto dei ribelli. I residenti che non sono ancora fuggiti temono le rappresaglie e gli attacchi dell’M23, non appena la nuova brigata entri in azione. A ciò si devono aggiungere, inoltre, le ripercussioni sulla sicurezza e la stabilità di una regione già castigata dalla violenza, dalla fame e dalla povertà estrema.
Conclusioni
La faccia A della storia, nella sua versione più ottimistica, è quella che ci offre Mary Robinson, da poco nominata Alta Rappresentante delle Nazioni Unite per la regione dei Grandi Laghi. In alcune dichiarazioni rilasciate nel corso di questa settimana, durante una videoconferenza trasmessa ai membri del Consiglio di Sicurezza, ha affermato: “Ci troviamo in un momento che rappresenta una nuova opportunità per la pace (…). Esiste una reale possibilità di superare le cause ultime che provocano il conflitto, per il bene di tutti”. Ha tuttavia avvertito delle conseguenze negative che comporterebbe un nuovo fallimento degli sforzi che la comunità internazionale porta avanti per risolvere il conflitto. Speriamo che i piccoli progressi in questo Paese, evidenziati da Robinson e dallo stesso Segretario Generale dell’ONU nel suo ultimo rapporto, facciano sì che tutte le parti implicate nella nuova missione siano coscienti dell’importanza che il successo della Risoluzione 2098 ha acquisito per la Repubblica Democratica del Congo e per tutto il continente africano.
(Traduzione dallo spagnolo di Marina Scarsella)