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Creato il 23 luglio 2012 da Clammmag @ClammMagazine

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My Week With Marilyn: un film che non convince del tutto?
Sembra un’affermazione azzardata, visto il successo ottenuto sia di critica che di pubblico (il film vanta una media di valutazione di 83% su Rotten Tomatoes, dove gli unici commenti negativi riguardano più la regia che non le interpretazioni, a detta di tutti impeccabili).

La trama è votata al successo: tratta dai diari The Prince, the Showgirl and Me e My Week With Marilyn di Colin Clark, terzo assistente alla regia durante la produzione de Il Principe e la Ballerina, tratta per l’appunto della settimana di riprese passata insieme a Marilyn – e, in effetti, insieme ad altri straordinari personaggi nel film lasciati grandemente in ombra, come Laurence Olivier e Vivien Leigh – dovrebbe essere uno spaccato su quella parte privata che era di Norma Jeane, che ogni tanto ancora si poteva intravedere tra una comparsa e l’altra di Marilyn Monroe.

Il film è in generale godibile. La fotografia, seppur non troppo vintage, è comunque ben curata, non ci sono colpi di scena da americanata hollywoodiana ma questo non rende la pellicola noiosa, e ammettiamolo, ci piace sempre vedere recitare Judi Dench, a prescindere dalla parte.

Eppure qualcosa non convince. E dopo averci ragionato un po’ su, ho trovato cosa non quadra: è proprio lei, la tanto osannata Michelle Williams. L’ex Jen Lindley di Dawson’s Creek si è negli anni guadagnata di diritto un posto tra le migliori attrici di Hollywood, e con questo film ha ottenuto la definitiva acclamazione e la sua terza candidatura agli Oscar, dopo I Segreti di Brokeback Mountain e Blue Valentine. Per quanto la sua interpretazione in questo Marilyn sia effettivamente ottima, non è Marilyn. E non perché la Monroe fosse una migliore attrice della Williams, anzi. Posto che il film andrebbe visto in lingua originale, poiché il doppiaggio delle parti relative alle riprese de Il Principe e la Ballerina è fin troppo caricaturale e proprio non rende giustizia né a Marilyn né a Michelle, è assolutamente apprezzabile la profondità che l’odierna attrice riesce ad infondere a questo mito degli anni ’50. Ed è proprio qui, a mio avviso, che casca l’asino, e in particolare su un piccolo dettaglio: gli occhi. Ciò che mi ha colpito nello sguardo della Williams è una vivacità, una brillantezza e un’espressività – auspicabile in un’attrice, intendiamoci – che però non si trova mai negli occhi di Marilyn. Non mi voglio addentrare in spiegazioni psicologiche, sociologiche, complottistiche o storiche sul perché dell’infelicità della compianta attrice, che pure doveva essere presente, vista la tragica fine che l’ha resa icona, ma un dato di fatto è che la sua espressione, quella sensuale da “appena sveglia”, nei film ma soprattutto nelle foto, era vacua, assente, come se fosse sempre persa nel suo mondo di dipendenze e tristezza, senza mai guardare “da questa parte”. E questo è un aspetto importante della figura di Marilyn che la Williams proprio non è riuscita a riprodurre, essendo il suo sguardo, anche nei momenti di depressione ben rappresentati durante la pellicola, sempre brillante come quello di qualcuno che è attaccato alla vita. Insomma, è più vera di Marilyn.

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Sempre riguardo la figura della protagonista, trovo che un lavoro non troppo accurato sia stato fatto dai makeup artist. È noto che Marilyn fosse particolarmente legata al proprio visagista, Whitey Snyder, dai suoi primi provini fino alla morte (fu lui a prepararla per il funerale, tenendo fede a una promessa fattale in precedenza, che lo impegnava a prendersi cura della sua immagine qualora lei fosse morta prima di lui). È altresì noto che Whitey utilizzasse determinate tecniche per enfatizzare quello sguardo di cui sopra – che non sono mai state rivelate da lui, ma comunque deducibili dall’osservazione delle immagini – come l’impiego di un’ombretto o una matita più scuri appena sotto gli occhi per imitare l’ombra delle ciglia, come se quelle superiori fossero così naturalmente lunghe e folte da appesantire la palpebra superiore (i già citati bed eyes) e da gettare un’ombra su quella inferiore, o l’applicazione di una matita o rossetto rosso nell’angolo interno degli occhi per farli apparire più bianchi, o ancora le cinque passate di Guerlaine Diabolique e un velo di pigmento bianco sulle labbra per dare loro volume1.

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Nonostante tutte queste informazioni siano facilmente reperibili, i makeup artist della pellicola non ne hanno fatto uso, se non nelle foto promozionali. Il trucco è ovviamente ben fatto e rende giustizia alla Williams, e capisco che la pellicola non sia un documentario ma una visione più umana di una diva, ma rimane comunque un film biografico (o suppostamente tale, dato che i diari sono stati pubblicati dal loro autore nel 1995, quando tutte le persone nominate nelle opere erano ormai defunte e quindi difficilmente avrebbero potuto contestare i fatti), dunque si sarebbe potuto dare un maggior risalto a questo aspetto: Marilyn Monroe era un vero e proprio alter-ego, una maschera di Norma Jeane, e come tale aveva bisogno del proprio caratteristico aspetto; perché non ritrarlo correttamente qui, in questo film incentrato proprio sull’opposizione tra le due personalità?

A lungo si potrebbe disquisire sullo scarso approfondimento psicologico riservato a un’altra, a mio avviso più talentuosa, attrice ritratta nel film, Vivien Leigh. Questa seducente, perturbante donna viene resa nella pellicola come una triste e consapevole moglie di Stepford, subordinata alla grandezza e offuscata dalla luce di Marilyn, quando invece all’epoca delle riprese de Il Principe e la Ballerina era tutt’altro che lucida, dato che soffriva gravemente di un disturbo bipolare che la rendeva imprevedibile e irriconoscibile persino agli occhi del marito Olivier. Si capisce che il film è incentrato sulla figura di Marilyn e non ovviamente su quella di Vivien, ma per quanto difficile potesse essere, si sarebbe potuto, con pochi tratti, dipingere in modo più completo e profondo quest’altra particolare personalità. Stesso dicasi per Arthur Miller, che non rimane altro che una macchietta senza battute. Personaggio del tutto eliminabile – assolutamente non per cattiva interpretazione ma proprio perché non apporta nulla alla storia – è quello di Emma Watson.

In conclusione, non mi sento di affermare che il film sia pessimo, o inguardabile. Nel complesso, anzi, è ben calibrato e piacevole da vedere, perfetto per una serata senza pretese. Sicuramente però è ben lontano dallo status di capolavoro che invece molti hanno voluto attribuirgli.

In effetti, forse sarebbe stato preferibile, per ritrarre Norma, girare una pellicola sui suoi ultimi giorni, o ancora, per rappresentare invece Marilyn, un vero e proprio film-documentario sul suo periodo d’oro. Di sicuro non una storia che sembra un calderone di clichés su un personaggio famoso mescolati senza dare un vero significato, o una direzione, d’ailleurs, al film.

di La Ragazza con la Valigia

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NOTE

1 Informazioni tratte da questo tutorial-documentario e articolo di Lisa Eldridge, makeup artist, direttore creativo di Boots No7, partner di Chanel e scrittrice di una rubrica mensile per Elle UK, nonché appassionata di storia del makeup.

2 Ne è un esempio la battuta di Michelle Williams, nella scena in cui Norma e Colin escono dal castello di Windsor: “Shall I be her?” (“Dovrei essere lei?”), riferendosi a Marilyn come a una terza persona.

3 Laurence Olivier, Confessioni di un peccatore, 1983.


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