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*, o della Logofobia

Creato il 07 aprile 2014 da Alby87

Oggi scrivo di un tema che ha vastissime implicazioni, ma lo faccio attraverso un esempio piuttosto specifico. Ciascuno potrà trarre da ciò che scrivo ciò che preferisce, ma io suggerisco di sforzarsi di cogliere le implicazioni filosofiche d’ampio respiro di questo discorso, più che concentrarsi sul mio specifico esempio.

Per chi non lo sapesse, nell’ambito dell’associazionismo GLBT c’è un’abitudine ortografica alquanto stramba e sorprendentemente diffusa: consiste nel sostituire la desinenza plurale del maschile generico con un asterisco, il cui scopo è suppergiù di rendere la parola neutra rispetto al sesso (es: “car* tutt*” invece di “cari tutti”).  Il diabolico asterisco in questione fa talora capolino perfino alla fine della sigla GLBT, che talora digievolve nella sua forma più abominevole, GLBTQI*.

Da letterato mancato quale sono, mi sono sempre opposto a questa abitudine di inserire la stellina, il cui posto naturale è nella schermata della password di Windows, nei luoghi più improbabili. Generalmente lo faccio più con ironia e sarcasmo che con attacchi diretti; la mia idea è fondamentalmente che questo uso sia una cazzatina radical chic, e come tale non può meritare addirittura una lotta attiva a suon di argomentazioni. Una battuta di spirito è sufficiente.

Eppure questo uso così marginale porta con se uno spunto filosofico interessantissimo. Al punto che, da quanto ho sperimentato, tirare in ballo l’argomento tende a polarizzare il dibattito sul tema.

Ogni volta volta che ho portato l’argomento all’attenzione, sempre in modo ironico, ho raccolto tanto per cominciare reazioni indignate contro il potere fascista patriarcale ed eternormativo da me rappresentato. Reazione interessante. Ancora più interessanti, per contrapposizione, le reazioni di chi tira una specie di sospiro di sollievo dicendo cose che si parafrasano con “grazie per averlo detto tu, lo pensavamo già ma guai a dirlo!”

Effettivamente suppongo di essere uno dei pochi ad essere disposto ad andare in un’associazione gay a sentirsi dire che se Arcigay e Arcilesbica sono separate è a causa delle persone come me che si rifiutano di usare l’asterisco. Ma alla fine di questo articolo conto che entrambe le reazioni, sia positive che negative, avranno una loro spiegazione.

Chiariamo subito: cos’è l’asterisco?

Non è una parola, né una lettera. È un carattere tipografico con varie funzioni; nel caso di esame è un segno che vuol dire più o meno “personalizzabile”. Qui metteteci quello che volete. Con ciò si intende TUTTO quello che vogliamo, altrimenti sarebbe bastata la forma (che secondo me è già superflua) care/i tutte/i. Se si preferisce l’asterisco è evidentemente perché si ritiene che ci siano altre possibilità. Quali siano non è dato saperlo e non è dato sapere se la lingua italiana le contemplerà mai… Comunque mi preme sottolineare l’assenza di significato che di per sé ha l’asterisco. Non è solo privo di significato, ma perfino di suono, è a tutti gli effetti illeggibile. Il che mostra un paradosso bizzarro che vado a spiegare:

Prendete la sigla GLBT.

Prendete l’uomo della strada e chiedetegli dei significati delle varie lettere e delle loro differenze.
Per lui, saranno tutti gay.

Di fronte a questo magma non-eternormativo che costituisce il movimento per i diritti dei gay, un po’ tutti sentiamo la legittima esigenza di specificare le differenze interne.

Gay non basta. Dobbiamo specificare le problematiche peculiare cui vanno incontro le lesbiche e i bisessuali, e ancora di più dobbiamo sottolineare la specificità di chi rispetto al proprio sesso biologica manifesta un’identità di genere difforme.

Quello che si fa è dunque andare a specificare, a chiarire i significati, ad approfondire. Avremmo potuto inventare un’altra sigla con lo stesso significato effettivo, come NHN ad esempio: Non Hetero-Normative. Ci entrerebbe praticamente tutto, ma avrebbe il difetto di essere definita solo in negativo, laddove vogliamo invece un’espressione positiva e specifica.

Ma allora, questo è il paradosso che annunciavo, come si è arrivato dal volere affermare una specificità, dal voler affinare il significato… al PERDERE completamente il significato, attraverso una non-parola e una non-lettera? Perché, ribadisco, l’asterisco non è né una parola né una lettera. Può essere tutte, ma questo vuol dire che in effetti non è nessuna di esse.

Se si perde un momento a ricordarsi cosa sono le parole, il paradosso si chiarisce: le parole sono a tutti gli effetti insiemi definiti per caratteristica. “Triangolo” è un insieme che ordina mentalmente tutti i poligoni con tre lati.

L’utilità delle parole sta nel loro potere caratteristico di sintetizzare molteplicità. Triangolo può identificare infinite figure geometriche, eppure è una parola sola. Attraverso questa sintesi passa anche la generalizzabilità: conoscendo tot triangoli, o conoscendo le caratteristiche che definiscono i triangoli, io posso fare inferenze, più o meno forti, sugli altri triangoli, quelli che non ho mai visto.

Questo magico potere delle parole è lo stesso potere dei concetti: mi permette di scoprire cose che non sapevo a partire da quelle che so; per dirla con Blake

 

 To see a world in a grain of sand

And a heaven in a wild flower,

Hold infinity in the palm of your hand,

And eternity in an hour.

 

La pronta obiezione è che esistono parole che non rappresentano insiemi. Parliamo dei nomi propri.

In effetti i nomi propri rappresentano un utilizzo diverso della parola, in cui il rapporto con il significato è assolutamente diretto. Alberto sono io, e chi mi conosce quando sente Alberto pensa a me. Ma chi non mi conosce quando sente Alberto dirà: “Alberto chi?”, perché quella parola per lui è priva di significato.

“Alberto” assume significato solo per pochi, e solo alla luce di una specifica collezioni di esperienze della mia individualità. Ma non porta informazione, se io dovessi presentarmi non direi “sono Alberto”, e basta, direi “sono Alberto, studente blabla, nato a blabla, amo gli insetti e gli acquari, il mio piatto preferito sono le lasagne blablà”. La parola Alberto deve essere ogni volta riempita di significato, mentre la parola triangolo va solo definita un’unica volta per poi adattarsi ad una molteplicità di casi.

Questa immensa differenza nell’utilità e nell’uso dei due tipi di parola deriva interamente dal numero di enti cui fanno riferimento: con la ricorsione, “triangolo” fa riferimento a moltissimi, per la precisione infiniti. Enti; Alberto ad uno ed uno solo (a meno di voler indicare “l’insieme di colore che si chiamano Alberto”).

Quello che succede nella sigla GLBT è che si vuole andare sempre di più a specificare, ad accogliere ciascuno pienamente… e quindi, idealmente, anche colui che non si sente né maschio né femmina, né omo né etero, né carne né pesce eccetera eccetera. Tiè, ci metto un asterisco così se vuoi invece della i o della e ci puoi mettere una bella Y.

“Come stai?”

“Sono un po’ malaty!”

Che dire, sono sorpreso che questa forma non sia ancora entrata nel linguaggio comune, è così bella e pratica.

Comunque, questo intento, nobile sulla carta collassa rapidamente nell’assurdo; man mano che vai a specificare, a scendere nel particolare, scopri che vengono a mancarti le parole. Non c’è bisogno di una parola per una persona sola… e se ce ne sono due, nemmeno, probabilmente: chi si troverebbe mai a usarla?

Nel vocabolario di Italiano non c’è una parola che descriva ME. Posso usarne molte, ma di sicuro non ce n’è una per me. Kant magari ha la parola “kantiano” che si riferisce specificamente a lui, ma i più non hanno la fortuna di essere accolti nel vocabolario, o avremmo un vocabolario più grande del pianeta terra.

Eppure io sono unico, possiedo delle mie doti particolari, il mio insieme di caratteristiche è veramente singolare.

Posso dire di non sentirmi accolto nella sigla GLBT perché non contiene anche la A di Alberto?

Mi mandereste a quel paese. Fareste benissimo; io sono già incluso nella G. E se non mi sento incluso in una di queste categorie, che sono varie ed eterogenee, qualcuno mi dirà: “sì, va be’, non rompere troppo il cazzo ora però, non è che possiamo fare una categoria che contiene solo te”.

Eppure quello che si vorrebbe è effettivamente che ognuno potesse mettere nella sigla esattamente se stesso. La voglia di specificare finisce col contrastare con la natura stessa della parola, che è un passaggio dal particolare al generale, e non viceversa. All’estremizzazione di questa negazione assoluta del generale arriva, naturalmente, l’implosione della parola.

Prima dunque avevamo un processo di rivalorizzazione e rivalutazione delle parole: parole come gay o lesbica erano insulti più o meno velati, noi li abbiamo reinventati completamente; nel caso di “gay”, abbiamo inventato addirittura una folk ethimology che lo reinterpreta come Good As You: si tratta di casi estremi e incredibilmente ben riusciti di rivalorizzazione della struttura logica. All’interno di questo meraviglioso utilizzo dello strumento verbale purtroppo si è permesso l’ingresso del diabolico virus di Derrida… e la malattia che ne segue è quella cui io do il nome nel titolo.

Logofobia, la paura delle parole.

Come dicevo, il potere magico delle parole sta nei loro collegamenti astratti: prendo un cane, mi faccio l’idea del cane, deduco informazioni su cani che non ho mai visto. Prendo il concetto di gay, lo applico a me stesso e così facendo rientro in un raggruppamento sociale, per quanto eterogeneo, e mi do caratteristiche specifiche. In questo modo io DICO ME STESSO, metto me stesso in parole. Mi inserisco in uno schema razionale e comunicabile sulla realtà.

E se da un lato abbiamo persone che si aggrappano agli schemi che si sono fatti sulla realtà fino alla cecità sulle differenze, un fenomeno che io chiamerei logomania, dall’altro abbiamo persone che evidentemente sono terrorizzata all’idea che qualcuno possa avere schemi su di loro, i logofobi. Perché gli schemi portano con sé qualche condizionamento, questo è inevitabile… Solo che lo stesso stare in società porta con sé qualche condizionamento, e la negazione di ogni condizionamento è l’eremitaggio, esattamente come la negazione di ogni parola è il mutismo.

Ovviamente la mania e la fobia hanno in comune l’ossessione: si dà a qualcosa un’importanza che non ha; nella mania ciò avviene in positivo, nella fobia in negativo. Così X è maniaco del calcio, e la sua felicità o il suo malessere dipendono da come va la partita della squadra del cuore, mentre Alberto è fobico del calcio ed è capace di abbandonare un locale se vede che c’è troppa gente che guarda la partita, perché gli dà un’importanza che non ha. Così i logofobi attribuiscono alle parole importanza mastodontica, fino al punto di covare la sottile convinzione che cambiare le parole, o addirittura annientare le parole, possa cambiare/annientare i concetti, o addirittura le realtà. Gli sfugge la discendenza naturale delle parole dai fatti, gli sfugge che sono le parole a rifunzionalizzarsi di fronte al cambiamento dei fatti e non viceversa; gli sfugge che a me già ora, se sono l’unico maschio della compagnia, capita a volte di esprimermi col femminile generico, perché l’uso dà forma alla parola. Ciò che pervade la mente del logofobo è il desiderio di non trovarsi mai intrappolato dentro una parola, quindi desidera non usarle affatto.

In filosofia, parliamo di nominalismo estremo. Come tutte le cose estreme, invoca il paradosso…

Ma c’è dell’altro. La paura della parola è in effetti paura dell’ordine razionale… e in effetti è quindi la paura irrazionale per definizione. Ma soprattutto è fobia del potere.

Per sapere che la parola è potere non c’è bisogno di riesumare Foucault, lo diceva già Gorgia. Nella Bibbia Dio dà all’uomo la possibilità di dare i nomi agli animali come prima attestazione del suo potere sul mondo: il potere è parole. E la paura delle parole è paura del potere. Io vedo le radici storiche della logofobia nell’avversione per il potere che rappresenta il fastidioso strascico dell’era dei totalitarismi; estremamente semplificato, il ragionamento è:

Hitler=male –>Hitler=potere–>potere=male–>parole=potere–>parole= male.

In effetti non è neanche una semplificazione: è esattamente questo il ragionamento, anche se non dubito che Adorno o Derrida lo scrivano con formulazioni molto più eleganti.

Sì, credo che ancora oggi i logofobi abbiano paura di Hitler. Ma restano perennemente incapaci di riconoscere una realtà molto semplice di tutti i totalitarismi, e cioè la loro avversione al logos significante: non v’è dubbio che il discorso e la parola siano uno strumento di potere, ma il potere che il logos esercita attraverso la ragione e attraverso il significato è completamente diverso dal potere che passa attraverso il discorso rabbioso ed emotivo di Hitler. Non vi è logica in un discorso di Hitler, anzi, la logica è nemica del discorso di Hitler, è l’arma più forte contro il discorso di Hitler. Per questo Hitler bruciava i libri: troppe parole lì dentro, troppa logica. Il logos rispetto al totalitarismo rappresenta una minaccia in virtù della sua irriducibile autonomia.

Per questo il mio ragionamento è un altro:

parole=logos–>logos=ragione–>ragione=bene–>parole=bene

Al potere del discorso emotivo, primordiale di un Hitler si contrappone sempre la forza di un logos significante. Il che significa esattamente la verità cosmica, universale, subatomica sull’universo che ora vi svelo (ma che avrebbe potuto svelarvi anche un quindicenne ubriaco… forse non un laureato in filosofia però): per abbattere un potere serve un altro potere; per abbattere un ordine serve un altro ordine.

Il logofobo, nel suo sforzo ossessivo di demolire il logos, di sicuro non va a sfiorare neanche marginalmente la struttura di un discorso di Hitler… in compenso crea inutili difficoltà al logos significante, quindi curiosamente spunta proprio una delle armi che si possono usare contro il discorso privo di significato, contro il discorso violento. Il logofobo spunta delle armi che potrebbe usare egli stesso, e non fa solo questo danno, ma un altro forse ancora più grave. Il logofobo infatti si dimentica che il linguaggio non è solo un accessorio di bellezza per l’uomo, ce l’abbiamo nel DNA; miliardi di uomini nasceranno dopo di noi, e tutti saranno capaci di parlare, e tutti parleranno, e nessuno di loro userà l’asterisco… ergo, tutti questi uomini avvertiranno sempre la necessità di usare le parole, e se tale necessità sarà compressa, probabilmente reagiranno con una pericolosa sovracompensazione. Avremo i logomaniaci.

Per tornare infine all’esempio dell’asterisco, da cui tutto è partito… Ecco spiegato molto banalmente il respiro di sollievo, il “per fortuna che l’hai detto tu che ‘st’asterisco è una cagata”. L’asterisco va troppo oltre, l’asterisco è un tentativo piccolo, ingenuo, sciocchino, di annientare le fondamenta del linguaggio. Proprio perché piccolo e sciocchino non preoccupa; proprio per il suo potenziale virale uguale a zero non v’è ragione che alcuno se ne preoccupi. Ma il senso di fastidio, o quanto meno di superfluo, permane; avvertiamo il senso di ingegnerizzazione linguistica, di artificiosità addirittura, che si nasconde dietro il tentativo di cancellare l’utilizzo stesso della parola.

Filosoficamente, la pretesa segreta di annientare il linguaggio è come la corazzata Kotiomkim di Fantozzi. Il che significa che è anche irrealizzabile e dunque non è da prendere molto sul serio: il semplice fatto che l’asterisco non possa essere pronunciato sta a significare che non può far parte di un linguaggio verbale, la cosa non è neanche in discussione.

Invece, storicamente parlando… forse le fasi in cui la filosofia ricade nel nominalismo estremo hanno un proprio valore dialettico, nel senso che sono un passo decostruttivo che porta ad una sintesi superiore. Forse possiamo pensare che eccessi un po’ sciocchi come questo siano necessari a scardinare gli schemi già esistenti, onde permettere l’avanzamento di quelli nuovi… Maaaaa… non è questa la mia “fede”. Se ritengo, come ritengo, che la posizione mediana sia quella giusta, non ne proporrò una assurdamente estrema nella speranza che poi si affermi quella di mezzo. Potrebbe accadere, ma non mi sembra che sia mai accaduto; mi sembra anzi che gli estremismi richiamino in vita la Reazione, e che per questo siano da evitare.

Ma su questo passo il testimone a chi se ne interessi di più, perché diventa un problema di comunicazione, e non di filosofia…

 

Ossequi



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