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O Fortuna, rota tu volubilis!

Creato il 17 maggio 2013 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua

Quanto è frequente, nelle nostre considerazioni più o meno forbite, il riferimento alla Fortuna? Alla buona o mala sorte ci affidiamo un po'tutti, e non c'è nessuno che non abbia mai imputato al casus un avvenimento positivo o negativo. Ma da dove nasce e come si è trasformata l'idea di Fortuna?

O Fortuna, rota tu volubilis!

In principio, neanche a dirlo, erano gli Antichi. La mitologia greca e romana (per parlare di una tradizione che conosco e che ci è indubbiamente più vicina di altre) manifesta di frequente la tendenza a trasformare in divinità antropomorfe i fattori intangibili che influiscono sull'esistenza degli esseri umani. Dalla personificazione del casus nacque la la Tyche greca, corrispondente alla Fortuna romana. Dea del destino e della sorte, rimase un'entità minore fino all'età ellenistica; era una delle figlie dell'oceanina Teti[1], ma la mitologia e la letteratura classiche non le hanno attribuito lo status divino fino al radicale cambiamento di prospettive impostosi fra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C.: il disorientamento e la trasformazione dei valori indotta dall'Ellenismo, periodo dominato da un forte individualismo e dalla ricerca di culti esotici, determinarono il successo di nuove figure divine, spesso legate ad aspetti intimi e 'minori' della vita degli uomini. Fu forse un processo di sincretismo[2] con la dea Iside a definire il ruolo di Tyche, che spesso veniva raffigurata con una corona a forma di muraglia o città e con una cornucopia o con il piccolo Pluto fra le braccia, a simboleggiare come su di essa si reggano i destini dei popoli e il suo dominio indiscusso sulla fertilità delle terre, l'abbondanza delle messi e la ricchezza.

O Fortuna, rota tu volubilis!


È arcinota la massima di Appio Claudio Cieco "Faber est suae quisque fortunae"[3], eppure non ci stupiamo di scoprire come sia cambiata, nel Medioevo, la prospettiva rispetto alla Fortuna. L'uomo medievale, infatti, vedeva la Fortuna come una forza inarrestabile e inarginabile, rappresentata come una donna posta nel centro di una ruota che, girando, faceva sì che chiunque potesse essere improvvisamente elevato alla gloria e poi sprofondato nella miseria. In un codice monacense ne vediamo una compiuta raffigurazione: un uomo senza regno (così recita la didascalia) è schiacciato dalla ruota in basso, risale verso il successo a sinistra, veste i segni del potere in alto, sulla sommità del cerchio, ed è riprecipitato nella sventura, con la corona che gli cade dal capo a destra.

O Fortuna, rota tu volubilis!

In un'epoca in cui l'umanità è dominata dal fatalismo e dalla fiducia in forze provvidenziali e in sistemi di mutamento del tutto imperscrutabili, non stupisce una simile visione della Fortuna, in balia della quale ciascuno poteva, nel corso della vita, godere delle più alte gioie e dei peggiori dolori. Lo stesso principio è espresso nel più conosciuto dei Carmina Burana (XIII sec.), musicato da Carl Orff negli anni 1935-36.

O Fortuna (Fortuna Imperatrix Mundi)

O Fortuna
velut luna
statu variabilis,
semper crescis
aut decrescis;
vita detestabilis
nunc obdurat
et tunc curat
ludo mentis aciem,
egestatem,
potestatem
dissolvit ut glaciem.
Sors immanis
et inanis,
rota tu volubilis,
status malus,
vana salus
semper dissolubilis,
obumbrata
et velata
mihi quoque niteris;
nunc per ludum
dorsum nudum
fero tui sceleris.
Sors salutis
et virtutis
mihi nunc contraria,
est affectus
et defectus
semper in angaria.
Hac in hora
sine mora
corde pulsum tangite;
quod per sortem
sternit fortem,
mecum omnes plangite!

O Sorte
come la luna
tu sei variabile,
sempre cresci
o decresci;
la vita odiosa
ora indurisce
e ora conforta,
per gioco, l'acutezza della mente;
miseria,
potenza
dissolve come ghiaccio
Sorte possente
e vana,
cangiante ruota,
maligna natura,
vuota salvezza
che sempre si dissolve,
oscura
e velata
me pure sovrasti;
ora al gioco
di te scellerata
porgo la schiena nuda.
Destino di salute
e di virtù
ora mi è avverso,
indebolito
e sconfortato
sempre schiavo.
In quest'ora
senza indugio
le vostre corde fate suonare;
poiché a caso
prostra un forte,
con me tutti piangete!

Il Rinascimento portò con sé la liberazione da molte superstizioni e, al contempo, sulla scorta degli studi umanistici e dei grandi esempi di umanità, valore ed eroismo degli antichi, dimostratisi capaci di fronteggiare anche le peggiori calamità, affermò le possibilità di azione dell'uomo, quindi anche la sua facoltà di emanciparsi da molte forze ritenute incontrastabili, come, appunto: una persona di valore e di intelletto, lungimirante e capace può ergersi contro la Fortuna, non certo con la speranza di vincerla, ma, almeno, con la certezza di poter almeno frenare il suo impeto o volgere il casus a proprio favore.
La teorizzazione più efficace di questo principio si legge nel capitolo XXV del Principe di Machiavelli, dedicato all'analisi del rapporto fra Virtù e fortuna: in queste pagine si incontrano le immagini della Fortuna come fiume in piena, da arginare con sistemi di dighe, e come donna che un giovane deve rendersi benevola, dimostrandosi però in grado di controllarla.

[...] Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l'altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella ad fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici, lieva da questa parte terreno, ponendolo a quell'altra; ciascuno gli fugge davanti, ognuno cede al suo furore, senza potervi ostare; e benché sia così fatto, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari, e con argini, immodoché crescendo poi, o egli andrebbe per un canale, o l'impeto suo non sarebbe sì licenzioso, né sì dannoso.
Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resistere, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini, né i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni, e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini, e senza alcun riparo. Che se la fusse riparata da conveniente virtù, come è la Magna, la Spagna, e la Francia, questa inondazione non avrebbe fatto le variazioni grandi che l'ha, o la non ci sarebbe venuta.
[...] Io giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso, che rispettivo, perché la Fortuna è donna; ed è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.

O Fortuna, rota tu volubilis!

Conoscete altri miti e tradizioni sulla Fortuna? Cosa pensate di questa strana e inafferrabile forza e quanto valore le attribuite?

C.M.

NOTE:
[1] Come sempre, traggo le note mitologiche dal manuale di K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia (p.47).
[2] Il Sincretismo è un processo di sintesi religiosa, per cui una determinata figura di un Pantheon si arricchisce degli attributi e delle funzioni di una divinità di un diverso sistema teologico ritenuta particolarmente affine.
[3] Ciascuno è artefice del proprio destino. Lo storico Sallustio attribuisce la frase ad Appio Claudio (vissuto nel IV-III sec. a.C.), riportandola in questo esatto modo: "In carminibus Appius ait, fabrum esse suae quemque fortunae" ( Appio afferma, nelle sue poesie, che ciascuno è artefice del proprio destino).


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